Hanno portato in scena l'umanità più varia e inattesa, dal professore di marxismo agli autisti di una ditta di trasporti internazionali, dagli appassionati di ferrovie in miniatura agli ex dipendenti della compagnia aerea Sabena, fino agli impiegati di un call center indiano. Loro sono i Rimini Protokoll, un'etichetta che si sta sempre più affermando sulla scena teatrale internazionale. Dietro a questa etichetta c'è un collettivo di tre autori-registi, i tedeschi Helgard Haug e Daniel Wetzel e lo svizzero Stefan Kägi, che fuori dalle logiche produttive dominanti (ma non contro di esse) stanno ridefinendo alcuni parametri della pratica teatrale. Il loro genere è definito teatro documentario, ma i Rimini Protokoll preferiscono dire che portano in scena degli esperti della vita quotidiana. E a loro chiedono di raccontare ciò che meglio sanno, cioè quello che queste persone comuni, ma a modo loro ognuna straordinaria, fanno tutti i giorni della loro vita professionale o privata. Un modo molto diretto per denunciare le contraddizioni della nostra epoca. Per il loro lavoro i Rimini Protokoll si sono visti assegnare all'inizio di aprile a Salonicco il prestigioso Premio Europa Nuove realtà teatrali.

Haug, Kägi e Wetzel si sono conosciuti studiando alla scuola di teatro di Giessen. «È una scuola che permette uno studio sia teorico che pratico e multidisciplinare. Inoltre non si limita a fornire delle tecniche, ma stimola ognuno a riflettere sul teatro in profondità. Ognuno ne esce quindi con un suo rapporto molto specifico nei confronti del teatro. Per questo da subito abbiamo potuto sperimentare in tutte le direzioni», ricorda oggi Helgard Haug. I tre si esercitavano spesso assieme. Finché un giorno, ancora durante la loro formazione, ebbero la possibilità di allestire uno spettacolo allo Stadttheater di Giessen. Decisero che ci volevano delle candele accese in scena. Ma per far questo il regolamento prevedeva che ci fossero sempre presenti due pompieri in sala. «Ci sembrava un'idea originale chiedere a loro di accendere le candele sul palco», prosegue Haug. «Così siamo entrati in relazione, abbiamo cominciato a parlare del loro lavoro. E per finire ci siamo accorti che i pompieri avevano molte più cose interessanti da raccontare di quante non ne avessimo noi. Gli abbiamo chiesto di farlo in scena. Ed è così che è nato il nostro primo spettacolo».
Da quel momento Haug, Kägi e Wetzel non hanno più smesso di mettere la gente comune sotto la luce dei riflettori. «È anche una scelta ideologica», ammette Daniel Wetzel. La loro tecnica registica s'è affinata attorno al 2000, quando in scena hanno portato "Kreuzworträtsel Boxenstopp", uno spettacolo sul tema della velocità e del tempo che passa, con quattro donne ottuagenarie appassionate di Formula Uno, e da allora il successo dei Rimini Protokoll non ha fatto altro che crescere. Anche perché nel loro percorso hanno toccato temi anche politicamente molto sensibili. Nella produzione del 2006 "Cargo Sofia" ad esempio i 50 spettatori venivano portati attraverso la città stando seduti sul rimorchio di un camion e, dalla parete di vetro, seguivano un percorso fatto di rampe di carico, centri di distribuzione e luoghi di smistamento di merci, mentre gli autisti bulgari raccontavano della loro vita fatta di assurdi e interminabili viaggi dettati dai ritmi dell'economia globale. In "Shooting Bourbaki" (2003) era invece sulla passione degli svizzeri per il tiro e per le armi che veniva puntato l'indice, mentre "Mnemopark" (2005) rimetteva in discussione i miti fondanti del nostro paese a partire dalla passione di alcuni amanti dei trenini in miniatura e dai plastici ferroviari che costruiscono. Ma ci sono stati anche "Sabenation" (2004) sul fallimento della linea aerea Sabena o ancora "Karl Marx: Das Kapital, erster Band" (2006) sull'attualità del marxismo oggi. E moltissimi altri spettacoli ancora, spesso realizzati ad hoc per un'occasione particolare o comunque con una relazione molto forte con il luogo della loro rappresentazione. «In questo periodo stiamo svolgendo delle ricerche molto approfondite sullo svolgimento delle assemblee generali delle grandi società anonime, come ad esempio le banche o le multinazionali della chimica», rivela Wetzel.
Fra gli spettacoli attualmente nel repertorio del gruppo. il più eccentrico è certamente "Call Cutta in a Box", che dopo un primo periodo in aprile sarà di nuovo ospite dal 3 al 29 giugno dello Schauspielhaus di Zurigo (cfr. articolo sotto). In esso sono quasi del tutto assenti quegli espedienti teatrali (giochi di ruolo, dialoghi prestabiliti, scenografie, luci, sonorizzazione) che negli spettacoli del trio solitamente fanno da cornice alla realtà trasposta in scena allo scopo di metterne in risalto un aspetto specifico. «Questo spettacolo è nato dal desiderio di fare qualcosa di semplice e nel contempo di interattivo», dice Stefan Kägi. Ma se in definitiva esiste è anche perché la compagnia che gestisce il call center indiano da dove gli operatori interagiscono con il pubblico europeo ha deciso di finanziare il progetto. «Questo però non ci disturba, si tratta di una marca molto lontana dal nostro pubblico», osserva Wetzel. Fondamentale, ricorda, è che chi compare negli spettacoli di Rimini Protokoll abbia qualcosa da dire. Anche se è dall'altra parte del mondo.


Il call center è un palco virtuale

La condivisione di uno spazio da parte di almeno un attore ed uno spettatore non c'è. Quindi "Call Cutta in a Box" del collettivo registico Rimini Protokoll non è, per definizione, uno spettacolo teatrale. Lo spettatore se ne sta infatti nell'ufficietto di un quadro di medio livello nella redazione di un giornale del gruppo Ringier a Zurigo. L'attore è invece ad oltre diecimila chilometri di distanza, a Calcutta, ed è collegato allo spettatore per telefono – lavora infatti in un call center, e quello che propone non è altro, in definitiva, che il suo lavoro. Nemmeno recita dunque, o poco.
Però forse non è così vero che non ci sia condivisione di uno stesso spazio, anche a simile distanza. Il call center in India è una delle espressioni più spinte e tipiche della globalizzazione, di quella fase dello sviluppo economico cioè che annulla le distanze e assimila le differenze, rendendo l'intero pianeta un unico spazio uniforme, monotono, intercambiabile da un posto all'altro. Dunque l'attore e lo spettatore di "Call Cutta in a Box" condividono lo stesso spazio fisico e mentale – infatti s'intendono perfettamente perché tutti gli oggetti d'uso comune sono uguali qui e là, perché le abitudini di vita diventano sempre più sovrapponibili e perché sempre più esperienze significative sono condivise a livello planetario (dall'11 settembre ai mondiali di calcio). Allora possiamo comunque dire che "Call Cutta in a Box" è uno spettacolo teatrale. Ha anche una drammaturgia con limiti ben chiari, per quanto sia elastica, e dunque un soggetto recitante.
Lo spettacolo ha inizio nell'atrio della Pressehaus di Ringier. Ogni spettatore vi assiste, meglio: vi partecipa da solo. Dall'atrio viene mandato al terzo piano, attraversa una redazione, entra nell'ufficio che gli è stato assegnato. Il telefono suona, risponde. Dall'altra parte c'è già in linea l'operatrice del call center. Questa con molte cautele inizia a coinvolgere lo spettatore in una conversazione. Lo invita a sedersi su una poltrona e a togliersi le scarpe, gli offre del tè (il bollitore si mette a funzionare da solo), gli indica una fotografia del palazzo dove lavora appesa alla parete, gli racconta di sé (25 anni, fidanzata, vive con i genitori, ha studiato tedesco al Goethe Institut della sua città, lavora al call center perché come biologa non trova lavoro, solitamente vende telefonini in Australia), gli canta una canzone, gli chiede di fare un disegno, gli fa uscire dalla stampante sulla scrivania la fotografia di lei con le sue amiche…
È vero? Non è vero? È comunque tutto abbastanza credibile perché lo spettatore si lasci andare, acquisti fiducia e racconti di sé, ponga delle domande, reagisca, sorrida. Lo spettacolo lo fanno in due – anche se è l'operatrice del call center ad averne il controllo seguendo un rigido protocollo (proprio come quelli che usa quando vende telefonini). Alla fine, dopo che ci si è anche visti a distanza attraverso una minitelecamera, ci si lascia come amici – lei gli ha fatto trovare una carta da visita con il suo indirizzo e-mail, «scrivimi», gli dice, «mi farebbe piacere». Bastano 45 minuti di una conversazione a diecimila chilometri di distanza per far nascere un'amicizia? Bastano certamente per evocarne l'illusione, per credere che sia possibile. Bastano a farci capire quanto abbiamo bisogno di riempire di umanità questi nostri spazi ipertecnologici così vuoti di vita.
Alla fine la domanda se sia teatro oppure no diventa irrilevante. Il congegno funziona, spiazza lo spettatore senza che egli tema di doversi esporre troppo. Peccato soltanto che in questo caso la relazione dello spettacolo con la città che lo ospita sia praticamente nulla. Ma forse visto l'argomento non poteva essere altrimenti.

"Call Cutta in a Box" è in cartellone a Zurigo dal 3 al 29 giugno, ogni ora dalle 14 alle 19, in tedesco o in inglese a scelta. Prenotazione obbligatoria presso lo Schauspielhaus, tel. 044 258 77 77.

Pubblicato il 

30.05.08

Edizione cartacea

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