L'editoriale

Il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in 90 minuti, scriveva George Bernard Shaw. E la partita di venerdì scorso – sì, quella che ha visto dei giocatori con la maglia svizzera mimare l’aquila albanese mentre esultavano per due gol contro la Serbia – racconta un pezzo di storia. Una storia dietro l’angolo che rievoca i fantasmi della guerra nell’ex Jugoslavia. Così il campo da gioco simbolicamente si trasforma in un campo di battaglia ancora vivo con i giocatori che tirano forte. Tirano per la Svizzera, dove le famiglie si sono rifugiate e di cui oggi sono legittimamente cittadini, ma anche con una sete di rivalsa per il Kosovo, la terra d’origine abbandonata a causa del sanguinoso conflitto degli anni ’90 del secolo scorso.


Ecco, alla fine il capolavoro di un tiro aureo e benedetto al 90° minuto che salva la partita – salva forse anche voi e la vostra storia – ma con la stecca finale di quel gesto fuori luogo che lascerà un gusto retroamaro alla vittoria. Si ricorderà a lungo quell’aquila, oggi simbolo del nazionalismo albanese, che ha fatto infuriare i serbi, ha spaccato inevitabilmente i tifosi svizzeri, ha generato tensioni sulla squadra in attesa che la Fifa si pronunciasse e ha scatenato isterie collettive. Oh, se ne ha scatenate negli hooligan del divano fra una birra e un rutto.


La verità è che la guerra lascia sul campo morti, ma anche feriti. E su quel campo da calcio-battaglia russo tutto il mondo ha visto le ferite dei due giocatori rossocrociati Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri, entrambi di origini kosovare. Di fronte avevano la Serbia, non un paese qualsiasi, ma quello della guerra dei loro padri. Se oggi Xhaka, figlio di un uomo, detenuto politico per tre anni e mezzo, e Shaqiri sono svizzeri è perché le loro famiglie dovettero abbandonare le proprie case per mettersi in salvo. Lo sappiamo. C’è chi afferma che le ferite da guerra si attenuino dopo tre generazioni. È probabile, è umano, è comprensibile.


È una contestualizzazione, non un’attenuante: non è stato un bel vedere anche perché siamo di fronte a sportivi che hanno raggiunto i massimi livelli e dai quali ci si aspetterebbe la capacità di rappresentare dignitosamente prima di tutto sé stessi, dando un calcio non solo al pallone, ma anche alle provocazioni e ai rigurgiti.
Se da soli, non ci arrivano, che qualcuno indichi loro – come a scuola – chiare regole di condotta e spieghi le possibili conseguenze delle loro azioni. Perché il vero dramma, se si continuerà a parlarne, sarà il trasformare questi footballeur in maître-à-penser della pelota...

Pubblicato il 

27.06.18
Nessun articolo correlato