Mi vengono in mente, in queste giornate prenatalizie, due immagini contrastive. La prima deriva da una lettera pubblicata online, lo scorso 27 novembre. La lettera, non firmata, è scritta da una donna che abita a Losone, ed è – nella sua desolante miseria – interessante fonte di indicazioni su cosa stia diventando parte del Ticino di oggi.

 

La signora lamenta, nell’ordine, che gli asilanti «sono sempre seduti sulle panchine delle scuole, bevono birra, ridono e sputano per terra, fanno veramente schifo», «sbucano da ovunque, i cani si spaventano e gli vanno incontro abbaiando, loro avendo paura dei cani gesticolano e si comportano in modo inappropriato! Già i miei cani sono furibondi perché li sentono passare regolarmente e tutto il giorno davanti casa mia … non sono silenziosi per nulla»; «Mio figlio l’altro giorno è arrivato tardi x pranzo xché sulla via di casa ha incrociato un asilante che tossiva e ne arrivavano di altri, allora ha attraversato la strada e cambiato tragitto scuola-casa per paura di contrarre qualche malattia».

 

La paura dell’essere umano, ecco cosa descrive la signora: dell’uomo (nero) che siede, ride, gesticola, non è silenzioso, tossisce. Siamo addirittura al pre-razzismo, alla primitiva paura per colui che è vivo e in quanto vivente manifesta la sua vitalità, ma non è riconducibile al (micro)cosmo di chi, in simbiosi con il proprio cane ringhiante, si chiude in una paranoica sindrome del minacciato. Povera signora, e povero figlio suo, e povero anche il cane, mi verrebbe da dire. La seconda immagine, appunto contrastiva alla prima, mi viene da un fotogramma del bellissimo documentario “Lo stesso mare” di Stefano Ferrari, proiettato assieme ad altri due film in una giornata speciale, lo scorso 29 novembre, a Massagno.

 

Una giornata speciale davvero, quella organizzata da “Harraga” per informare e sensibilizzare sul tema dell’asilo, fatta da alcuni film molto belli, un dibattito rigoroso e stimolante, una partecipazione massiccia e partecipe di pubblico come non si vedeva da tempo. Nel documentario di Ferrari, che racconta del suo viaggio all’incontrario, dal Ticino a uno dei più grandi centri di raccolta profughi italiani, a Mineo in Sicilia, a un certo punto si vede un ragazzo, un profugo, desolatamente, irrimediabilmente infelice.

 

Un ragazzo che piange, sommessamente, con un dolore e una sofferenza che strazia e per cui nessuno sa trovare parole di consolazione. Lacrime: carne viva, corporeità, umanità, anche qui. Chissà se la signora di Losone, che scrive (con inconsapevole limpidezza) che l’arrivo degli asilanti a Losone è l’ «inizio della fine di una cittadella», un giorno fortunato smetterà di avere paura: di sé e della sua ombra, in fondo, e proverà anche solo un poco di quel sentimento di umana solidarietà che in questi giorni dovrebbe – dovrebbe – farsi strada anche nelle nostre piccole e a volte davvero buie contrade.

Pubblicato il 

18.12.14

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