Se la rivoluzione egiziana fosse stata promossa e condotta soltanto dalle classi disagiate del paese direi che le cause ultime della sua esplosione sono di natura economica.
In verità però la rivoluzione di questo gennaio 2011 ha avuto come protagoniste assolute, almeno nella sua prima fase, le classi medie della capitale. Giovani e giovanissimi, in particolare, provenienti dalle famiglie benestanti del Cairo, ma anche di Alessandria, Ismailia, Suez. Giovani istruiti, con una formazione scolastica equiparabile alla nostra maturità. Giovani che conoscono il mondo attraverso gli schermi della televisione satellitare ma, soprattutto, giovani che "navigano", per i quali la rete rappresenta il proprio abituale contesto di riferimento.
E sono questi giovani che sono riusciti a lanciare l'appello che, dopo i fatti di Tunisia, ha permesso all'Egitto di organizzarsi e di scendere in piazza a una sola voce contro il regime di Mubarak.
Possiamo allora credere che questi giovani chiedano pane, aumenti di salari, fine della precarietà? No, questi giovani chiedono sostanzialmente due cose: libertà e democrazia. Chiedono quello che nel loro mondo virtuale è rappresentato dalla rete: un universo di riferimento dove ciascuno è libero di esprimersi senza censure in comunicazione con l'intero pianeta e dove ciascuno appartiene a un sistema democratico in cui nessuna gerarchia e rapporto di forza sono in grado di levare legittimità di partecipazione agli altri. Insomma, libertà e democrazia, i due elementi fondamentali che hanno reso possibile, prima in Occidente e poi in tutto il mondo arabo e islamico, la travolgente diffusione di internet e dei suoi rapporti in rete.
Ma dietro questa avanguardia di rivoluzionari del net naturalmente si affolla la gran massa degli egiziani disagiati. E allora ecco che le ragioni sociali della rivolta coincidono essenzialmente con le ragioni economiche. Nel 2007 nella cittadina di Mahalla era scoppiato uno sciopero generale per l'incremento improvviso del prezzo del pane. La gente si è riversata per strada e le forze dell'ordine hanno soppresso nel sangue la rivolta. È stata la prova generale della rivoluzione dei poveri, confluita meravigliosamente in quella a cui abbiamo assistito in queste settimane. E da questa prima rivolta spontanea di massa è scaturito uno dei promotori del movimento pro-democrazia che ha assunto le redini e la gestione della rivoluzione: il Movimento 6 Aprile, in ricordo della data degli scontri di Mahalla.
Accanto a questo movimento un terzo gruppo di rappresentanti della popolazione: il movimento Kefeya (letteralmente "Basta", "Basta così"), il cui obbiettivo era invece quello di interrompere la dinastia Mubarak e di chiedere al presidente di non candidarsi più alle presidenziali.
Questi tre gruppi portano tre istanze di rinnovamento diverse: la prima di natura libertaria, la seconda di natura economica e la terza di natura politica. Ma convergono tutte verso un unico scopo: liberare il paese dalla corruzione e dalla dittatura del monopolio economico della classe politico-imprenditoriale al potere da trent'anni (sostanzialmente assimilabile con le alte schiatte del Partito Nazionale Democratico).
È quindi fondamentale non dimenticare che dietro questa sollevazione non si celano soltanto ragioni "terzomondiste" – che pure sottintendono e sottendono tutte le altre – ma anche ragioni più "europee" e più "moderne". Il popolo egiziano è esploso con la stessa energia e determinazione degli altri popoli arabi perché l'intero mondo arabo è in balia della sperequazione sociale, e della sottomissione delle classi più disagiate, come probabilmente nessuna altra regione del pianeta. E a tenere le fila di queste ingiustizie economiche, sociali, politiche e culturali sono le dittature.
Per sintetizzare si può quindi affermare che in Egitto non sono solo i poveri a essersi sollevati contro il raìs Hosni Mubarak, ma l'intero paese in tutte le sue dimensioni e articolazioni. I poveri, certo, trovano in questa opportunità l'unico sbocco possibile alla loro condizione di dimenticati della terra, poiché i movimenti sindacali sono da queste parti praticamente inesistenti e le formazioni politiche di ispirazione sociale (Comunismo, Socialismo e partiti religiosi fuorilegge come la Fratellanza Musulmana) non hanno in Parlamento che una rappresentanza simbolica e risibile. Ma il paese non è solo questa fascia di poveri che vivono a cottimo, a giornata o di sole mance (come la maggior parte dei camerieri). Il paese è anche quell'ampia fascia piccolo-borghese che, oltre alla povertà, deve fronteggiare la mancanza di libertà, la disoccupazione, la precarietà, la paura degli arbitrii delle forze dell'ordine e di polizia, la mancanza di rappresentanza politica, la mancanza di diritti collettivi e personali e via elencando. Insomma, se vogliamo dirlo in sintesi: la rivoluzione egiziana non è solo una rivoluzione dei poveri, è soprattutto una rivoluzione degli esclusi. E nelle ditatture mediorientali l'esclusione prende molte forme, fra cui la miseria non è l'unica da annoverare.

Pubblicato il 

11.02.11

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