Ci propinano spesso mistificazioni economiche. Una mistificazione è una deformazione della realtà con lo scopo di trarre in inganno. Non propongo un articolo in difesa dell’iniziativa popolare “1:12, per salari equi”. La assumo piuttosto come spunto per un contrappunto logico.


Nell’economia dominante, quasi fosse una religione, si impone un dogma, assoluto e intoccabile. Il mercato è tutto, giudice supremo che opera nell’interesse di ognuno. Lo Stato non deve metterci naso. Tanto meno deve intervenire per definire le retribuzioni minime o massime dei lavoratori. Sarà il mercato a decidere sulla base dell’offerta e domanda di lavoro e sulla “produttività”, cioè su quello che ogni collaboratore rende o non rende.
La mistificazione sta nell’attribuire al mercato verità, giustizia, razionalità e sta nel giocare alla gibigiana con la produttività.


L’oggetto del contendere sono sempre le elevate retribuzioni degli alti dirigenti delle imprese. Le quali vengono appunto giustificate con il mercato (concorrenza) e con l’alta “produttività” (più ricchezza, profitti) attribuita ai dirigenti. Ora, anche arrampicando sui vetri, è però obiettivamente impossibile misurare la “produttività” individuale dei manager. Per due ragioni: la loro attività è immateriale, non c’è nessuna possibilità oggettiva di misurare il risultato del loro lavoro per unità di tempo (in un giorno, un mese, un anno); la loro attività, anche se eccelsa e proficua, non approderebbe da nessuna parte se altre persone nell’impresa non vi avessero contribuito. Se ne deduce che le retribuzioni dei dirigenti sono stabilite più da rapporti di forza che da logica economica. Ed è appunto per riequilibrare quei rapporti di forza sbilanciati dentro le imprese che si richiede un minimo di regole. Anche perché, per assurdo che possa sembrare, è una necessità per la stessa economia di mercato che risulta falsificata dalla mistificazione della maggior produttività assegnata ai manager. Lo sostengono le organizzazioni internazionali (da G8, G20, FMI, Ue).


C’è tuttavia una produttività che vien misurata con precisione dalle imprese e dalle statistiche. È la produttività per lavoratore (la produzione divisa per gli effettivi). È la produttività oraria (la produzione divisa per le ore lavorate). L’una e l’altra sono quasi sempre usate in una sola direzione: quando calano profitti e si ristruttura, la produttività (che genera ricchezza, utili, dividendi) viene aumentata… eliminando lavoratori-salariati (quasi mai dirigenti-bonus) o esigendo maggior produzione per ogni ora lavorata (sfruttando di più ogni lavoratore).
Il quadro che deriva da tutto questo è il seguente: negli ultimi vent’anni il prodotto interno lordo (la ricchezza prodotta nel paese) è aumentato del 40 per cento; la produttività del lavoro (dei lavoratori reali) è aumentata in prezzi correnti del 48.3 per cento; i salari nominali sono aumentati in media del 20 per cento (9 per cento quelli reali, tenendo conto dell’inflazione); i salari medi dei dirigenti d’impresa sono aumentati di oltre il 200 per cento (dell’80 per cento ancora dai primi segnali di crisi).


La demistificazione (che va oltre l’iniziativa) è un interrogativo ovvio: perché l’aumento della produttività dei lavoratori (più ricchezza prodotta) che è reale, misurata, innegabile, vale poco o niente in termini di maggior retribuzione rispetto a quella supposta dei manager, più immaginata e cooptata che calcolata e verificata ma che ha invece generato retribuzioni esplosive?

Pubblicato il 

06.11.13

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