«…fatti alcuni passi terminarono anche gli edifici e dinnanzi a noi, in lontananza, ecco stagliarsi la buia silhouette del S. Salvatore sulla quale si intravvedevano le luci della funicolare; a destra dietro un parapetto di pietra, si scorgono le rive e il lago. Ci sediamo sul parapetto con le gambe ciondoloni. Sull’altra sponda c’ è il Monte Brè, alcune case illuminate ed una insegna sfacciatamente luminosa che di tanto in tanto, a grandi lettere, illumina le parole “M. Brè”.»


Questa descrizione del paesaggio luganese appartiene a un appunto del tutto dimenticato dell’allora ventenne Walter Benjamin, il grande intellettuale ebreo tedesco che nel 1940, sulla via della fuga dal nazismo, si sarebbe tolto la vita ingoiando una capsula di cianuro al confine tra Francia e Spagna. Benjamin ebbe un rapporto particolarmente intenso con la luce e la luminosità, del resto da sempre legate alla manifestazione del divino. Per lui le esperienze esistenziali ed estetiche capaci di farci sporgere dalla realtà esistente e dal cumulo di macerie del “progresso” valevano come delle “illuminazioni profane”. E di una particolare irradiazione “cultuale” parla anche il suo concetto più celebre, quell’“aura” dell’opera d’arte di cui egli predisse il tramonto e il superamento con l’avvento dell’epoca della riproducibilità tecnica.


Anche nella sua pagina luganese, la sua esperienza del paesaggio è toccata in particolare dalla luce, ma qui da una luce “sfacciata”, quella dell’insegna del Monte Brè, tutt’ora esistente, e sempre più circondata da case, ville e palazzi che una speculazione ancor più priva di misura e pudore ha ormai portato fin sulla vetta.
La rivelazione si rovescia in sfacciata profanazione. Si misura anche così, in quintali e quintali di cemento sparso un po’ ovunque, il secolo che è trascorso da quel giorno, un secolo che è riuscito ad operare una colonizzazione-privatizzazione speculativa dello spazio pregna di esclusioni e di implicazioni distruttive. Montagne, colline, rive dei laghi occupate-profanate secondo la cartografia del profitto. Ma qual era poi il significato di quell’insegna che colpì Benjamin? Essa era forse già una sorta di réclame? Un’insegna pubblicitaria? Una montagna e una regione in vendita? Il giovane Benjamin, seduto in riva al lago con lo sguardo rivolto all’insù, non senza ironia, chiede: «Cari amici, sapete dirmi quali possibilità emergono in conseguenza dell’ applicazione del principio: si deve illuminare elettricamente la silhouette dei monti? O piuttosto l’ intera vetta? Forse - conclude Benjamin - si potrebbe fondare una Società per Azioni per denominare elettricamente i monti o per battezzare elettricamente gli stessi…».


Non è escluso che se qualche artista ben quotato proponesse oggi, in attesa del Lac, un’opera di land-art tesa a illuminare il contorno delle montagne attorno al lago, magari qualche istituto bancario, se non la città, ci potrebbe anche stare a fare da sponsor, in fondo poi basterebbe porre da qualche parte, magari proprio sul Brè o sul San Salvatore o in cielo…, la sua firma, il suo brand. Avremmo anche un “paesaggio firmato”, da esportare in immagine e da sfruttare ulteriormente come fonte di plusvalore per gli affaristi immobiliari impegnati a far propaganda in Russia o altrove. Se a Las Vegas si costruiscono piccole case per sostenere grandi insegne pubblicitarie, in fondo in Ticino a tale scopo si possono mettere al lavoro le montagne stesse… Non c’è che dire, Benjamin era stato lungimirante e pungente con la sua osservazione: il paesaggio intero è stato viepiù profanato come una merce da far rendere. E questa sua snaturalizzazione ha trovato nell’estensione dell’edificabilità la via politica per la sua realizzazione. Ma terra e paesaggio ovviamente appartengono alla natura e la natura non si è formata per poter essere venduta, quanto piuttosto per offrirsi come l’habitat, o il pascolo nutriente e sano, di una diversità biologica messa ora in serio pericolo dalla cementificazione in atto.


Il 3 marzo in Svizzera saremo chiamati a votare la revisione della legge pianificatoria, ed è evidente che è ora di cercare di limitare in modo legislativo più efficace l’attuale devastazione del territorio. Le misure previste dalla revisione sono necessarie, talune anche molto interessanti (quali l’idea di creare fondi per il dezonamento e la creazione di spazi pubblici tassando il plusvalore derivante da nuovi azzonamenti o varianti densificatorie). L’interesse di chi vi si oppone in nome di un concetto assoluto di proprietà privata, destituito di ogni fondamento e del tutto astratto, si commenta da solo: il liberismo individualistico si rispecchia nello spazio-spazzatura, nel junk-space, che esso ha finito col generare. Effettivamente, i buoi sono pressoché già scappati dalla stalla, ovvero l’edificazione si è sparsa un po’ ovunque sotto la spinta della speculazione. Chissà che con il voto a favore della modifica della legge non si riesca comunque a decolonizzare almeno qualche porzione di territorio e a rendere di nuovo possibile, l’altra esperienza del paesaggio, quella nella quale la luce inappropriabile delle stelle potrà forse ancora illuminare, con la sua lontananza auratica, l’agire ecologico e sociale delle generazioni future.

Pubblicato il 

28.02.13

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