Dire che la Borsa sta svuotandosi oppure che si sta sviluppando un’economia a somma zero, può essere motivo di incredulità. Eppure è quanto si constata. Deve perlomeno incuriosire. Sia perché la Borsa è sempre presentata come un termometro dell’economia e fa sempre notizia. Sia perché si ritiene che la crescita è condizione dell’economia.


Per la Borsa si dice che qualcosa non gira nel regno del capitalismo. Per un dato che impressiona: in vent’anni la regina delle Borse, Wall Street, ha perso metà delle società che vi erano quotate. Le principali Borse europee ne hanno già perso il 20 per cento. Quindi: sempre meno società ricorrono alla Borsa per raccogliere capitali per finanziarsi (che è poi la funzione per cui è nata la Borsa) o preferiscono ritirarsene; sempre più società trovano i capitali sui mercati del cosiddetto “private equity”, ritenuto meno curioso, meno intrusivo, meno ossessionato dal risultato a breve termine, più rimunerativo. (Private equity significa, in poche parole, fondi creati per ricevere capitali messi a disposizione direttamente da istituzioni o investitori privati, senza passare dal risparmio pubblico-borsistico; quindi non regolamentati dalle autorità di mercato, poco trasparenti, speculativi). Varie ragioni spiegano questo movimento. Le crescenti fusioni-acquisizioni di società quotate in Borsa, con la creazione di imprese mastodontiche e potenti che fagocitano i concorrenti, ne sono una. Due appaiono però determinanti: volersi sottrarre alle regole introdotte dopo gli scandali e la conseguente crisi; scansare la complessità e frammentazione dei mercati, con le micidiali trattative ad alta frequenza e le decisioni al millesimo di secondo, che rendono la Borsa una pericolosa giungla. Sembra la storia del serpente ingordo che divora se stesso. Le conseguenze non sono di poco conto: deregolamentazione crescente e quindi maggiori rischi, speculazioni, frequenti successive crisi; ancora rimunerazioni esplosive per i gestori, come sta avvenendo; difficoltà per molte società a reperire capitali da investire, affermarsi e crescere; demolizione della decantata concorrenza e concentrazioni di potere. Scossone non da poco per un pilastro del capitalismo, la Borsa, e veleno paralizzante per l’economia.
Con economia detta a somma zero si fa presente una sorta di equazione cui poco si pensa. Quanto investiamo da una parte in competenza, impegno, sforzo, tecnologia non aumenta o non distribuisce più di quel tanto il benessere, perché competenza, sforzo, impegno, tecnologia vanno “sprecate” anche d’altra parte, concorrenziale o in opposizione, per vivere.

 

Qualche esempio: per far fronte ai cybercriminali le imprese devono sempre più assumere cyberesperti, con costi enormi, per difendersi dagli attacchi e salvaguardare gestione, proprietà, brevetti, produzione, concorrenza; per rendere sicure e credibili una piazza finanziaria o le banche bisogna far fronte alla speculazione o alla criminalità finanziaria o commerciale attrezzandosi e spendendo in apparati giuridici o in amministrazioni fiscali altamente qualificati; per affermare attraverso pubblicità e marketing la marca X a spese della marca Y si avvia una inarrestabile spirale di costi, tanto che alle volte il costo pubblicitario risulta superiore al costo di produzione (clamoroso il caso de L’Oréal, prodotti cosmetici). Qui lo scossone è soprattutto per la mitica produttività, criterio vitale per l’economia, ritenuta l’attitudine economica a conseguire un risultato superiore ai mezzi impiegati (capitale, lavoro, manodopera, energia, edifici ecc.) e del cui calo si rendono spesso colpevoli… i lavoratori.

Pubblicato il 

17.04.19
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