La difficile sfida di Michelle

Domenica scorsa, 17 novembre, Michelle Bachelet, socialista, ex-presidente 2006-2010 e candidata alla presidenza 2014-2018, ha vinto le elezioni. Ma, in un certo senso almeno, le ha anche perse. Perché per superare finalmente, a 40 anni dal golpe dell’11 settembre 1973 e a 23 anni dall’uscita del generale Pinochet dal palazzo presidenziale della Moneda l’11 marzo 1990, avrebbe dovuto stravincere. E subito. Bachelet ha avuto il 46,7% dei voti, tanti ma non abbastanza per evitare il ballottaggio fissato per il 15 dicembre.

 

E la sua coalizione – la Nueva Mayoria, in sostanza la vecchia Concertacion por la Democracia, al governo dal 1990 al 2010, centrata su socialisti, democristiani e socialdemocratici allargata ai comunisti – ha vinto le elezioni parlamentari in Camera e Senato ma solo con la maggioranza assoluta non sufficiente per piegare la destra e avviare quelle riforme radicali che lei ha promesso in campagna elettorale e che «il paese reclama».
Una bella vittoria, indiscutibile. Ma non quello tsunami elettoral-politico che sarebbe stato necessario, sia numericamente sia simbolicamente, e che i sondaggi sembravano rendere possibile.


Michelle Bachelet ha avuto quasi il doppio dei voti dell’altra donna che le contendeva – e le contenderà – la presidenza, la pinochettista Evelyn Matthei, candidata della Alianza fra i due partiti della destra cilena, Udi e Rn: ma i sondaggi preconizzavano a Matthei un umiliante 12-14% dei voti, invece è arrivata al 25,1% e, soprattutto, Michelle si è fermata a un passo dalla maggioranza assoluta.


Anche la Nueva Mayoria ha avuto un eccellente risultato (e i comunisti sono passati da 3 a 6 deputati). In Senato dei 20 seggi in palio, sui 38 totali, ne ha vinti 12 per cui ora ha 21 senatori contro i 16 della destra e un indipendente. Alla Camera, che doveva rinnovare tutti i 120 seggi, ha avuto 68 deputati, conquistandone 13 mentre la destra ne ha persi 12 ritrovandosi con 48 (e 4 indipendenti).


Un grande successo visto il sistema elettorale “binominale” scientificamente perverso lasciato in eredità da Pinochet, fra i tanti altri regali avvelenati e tuttora intatti: un sistema in base a cui un partito ottiene i due seggi assegnati a ogni circoscrizione solo se arriva almeno al 66,7% dei voti, altrimenti ne prende uno solo e l’altro va al secondo partito che tocchi almeno il 33,3%; un sistema che distorce volutamente, in nome della stabilità, il rapporto voti-seggi, che vuole escludere i partiti minori e favorire le due principali coalizioni condannate in pratica a un “pareggio perpetuo” o quasi. Numeri che significano il 58% dei 120 deputati, che basterà per realizzare riforme a maggioranza assoluta o del 57%, tipo le riforme sul fisco e sul lavoro, ma non per la riforma elettorale né tanto meno per le riforme costituzionali che richiedono maggioranze straordinariamente qualificate, 2/3, 3/5, 4/7. Sono le “leyes de amarre”, le leggi con cui Pinochet ha voluto “ancorare” il Cile democratico al Cile della (sua) dittatura, tendenzialmente per sempre. La costituzione e le leggi che definiscono il “modello” economico, politico, sociale cileno e che fanno ancora del Cile un paese post-Pinochet ma non ancora post-pinochettista.


È praticamente scontato che il 15 dicembre Michelle Bachelet vincerà il ballottaggio e l’11 marzo 2014 entrerà per la seconda volta alla Moneda, da cui uscì nel 2010 acclamatissima e con un rating superiore all’80%, ma costretta a lasciare il posto al miliardario Sebastian Piñera, il “Berlusconi cileno”, primo esponente ex (o post) pinochettista a vincere le elezioni dopo 20 anni di presidenti di centro-sinistra. Sarà la terza donna, con l’argentina Cristina Kirchner e la brasiliana Dilma Rousseff, a guidare un paese dell’America latina.
Ma una cosa sarebbe stata entrarci dopo aver vinto al primo turno e essersi trascinata dietro una maggioranza ancor più massiccia in parlamento, un’altra sarà entrarci dopo il ballottaggio, che riproporrà inevitabilmente l’immagine di un paese spaccato in due, e con le necessità di provare a negoziare con l’immarcescibile destra cilena le riforme più qualificanti.


Bachelet questa volta non ha scampo: dovrà onorare gli impegni presi in campagna elettorale. Almeno alcuni. Impegni grossi: due grandi riforme, quella dell’istruzione e quella del fisco; la reintroduzione dell’aborto terapeutico; il dibattito sul matrimonio gay; il «riconoscimento dei popoli indigeni» (il calvario dei mapuche del sud cileno, trattati dal centro-sinistra non meglio che ai tempi di Pinochet). Dovrà impegnarsi a ristrutturare a fondo il sistema educativo, dalle secondarie alle università, tutte privatizzate da Pinochet, il sistema più classista e più caro fra i 34 paesi di quell’Ocse a cui il virtuoso Cile si vanta di appartenere, per arrivare a un’istruzione pubblica «universale, gratuita e di qualità», finanziata da una riforma tributaria meno regressiva e “business friendly”. Se Piñera se ne va con il peggior indice di gradimento di tutti i presidenti dal ’90 lo si deve anche e soprattutto alle lotte degli studenti universitari che dal 2011 non gli hanno dato tregua (e non a caso quattro dei loro ex-leader sono stati eletti deputati: Camila Vallejo e Karol Cariola con i comunisti, Giorgio Jackson e Gabriel Boric come indipendenti di sinistra). Dovrà impegnarsi per una qualche forma di redistribuzione della ricchezza in un paese che è un “world class success story” ma che è anche uno dei più diseguali del mondo secondo le stime Onu.


Dovrà, e questo è il punto più difficile, provarsi a cancellare l’obbrobrio della costituzione del 1980, che la destra considera – a ragione – il pilastro del “modello”. Intoccabile.
Per farlo dovrà mobilitare e smuovere il paese, oltre e più che contare sulle manovre in Congresso. Quella metà di cileni che ha votato e voterà per lei (in realtà solo il 25-30% dell’elettorato totale) e quella metà di cileni che domenica non è andata proprio a votare (hanno votato in 6 milioni su 13) per sfiducia nella politica o per disincanto. Altrimenti non ce la farà.

 

Pubblicato il

21.11.2013 17:12
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