«Fin d'ora desidero dire che nella ricostruzione dei fatti che sto per proporre non c'è nessun intento offensivo e nessuna volontà di venir meno al rispetto delle vittime». La premessa con cui l'avvocato Astolfo Di Amato (legale di Stephan Schmidheiny) ha iniziato l'arringa difensiva nel processo Eternit di Torino, già lasciava intendere che con la sua "ricostruzione dei fatti" sarebbe andato a urtare la sensibilità di molte persone. Ed è andata proprio così.

Le circostanze hanno voluto che lunedì scorso i malati e i famigliari delle vittime di Casale Monferrato (la cittadina piemontese che con i suoi oltre duemila morti è la realtà che ha pagato e sta pagando il prezzo più alto per la presenza sul suo territorio di uno stabilimento Eternit) fossero presenti in aula meno numerosi del solito, poiché reduci da una lunga trasferta nel Nord della Francia, dove lo scorso fine settimana hanno dato vita insieme a tante altre vittime dell'amianto ad una grande manifestazione internazionale. Quelli che non c'erano sono stati risparmiati da una ricostruzione degli eventi perlomeno bizzarra e a tratti irrispettosa del loro vissuto e delle loro immani sofferenze.
L'avvocato Astolfo Di Amato ha incominciato con lo sminuire il ruolo del miliardario svizzero nella gestione degli stabilimenti italiani, rilevati nel 1972 dal belga Jean Louis de Cartier, pure lui imputato nel processo torinese con i medesimi capi d'accusa: disastro ambientale doloso permanente e omissione dolosa di misure anti-infortunistiche sui luoghi di lavoro.
Il gruppo elvetico facente capo alla famiglia Schmidheiny «possedeva stabilimenti in 23 paesi e controllava a livello mondiale più di mille società». Logico dunque che esso si limitasse a dare indirizzi, a svolgere una «normale attività di coordinamento», lasciando «le decisioni e la gestione effettiva» ai dirigenti dei singoli stabilimenti, ha sostenuto l'avvocato Di Amato. Stephan Schmidheiny avrebbe insomma fatto consistenti investimenti in Italia (72 miliardi di lire tra il 1976 e il 1986, anno di chiusura, su autoistanza di fallimento, dell'ultima fabbrica di Casale Monferrato) senza avere alcuna capacità decisionale, senza il cosiddetto "potere di spesa".
Ma non solo. Invitando la Corte a valutare i fatti con «onestà intellettuale», il legale ha attribuito a Schmidheiny il merito di avere per primo a livello internazionale sollevato il problema della tutela della salute dei lavoratori, in linea con le «conoscenze dell'epoca», quando «c'era un parere diffuso che fosse possibile la lavorazione dell'amianto in sicurezza». Un impegno che in Italia, dove le fabbriche prima dell'arrivo degli svizzeri «si trovavano in condizioni catastrofiche», si sarebbe concretizzato con l'iniezione di decine di miliardi in gran parte investiti in «misure di sicurezza», in particolare per «l'acquisto di nuovi macchinari», per il «passaggio dalla lavorazione a secco a quella a umido», per «l'introduzione di migliori sistemi di controllo» e «per la ricerca di fibre alternative». Fino a fare di Eternit Italia un «punto di riferimento», «un modello» per le altre imprese del cemento-amianto, ha ancora affermato Di Amato, suscitando sussurri e profondi sospiri di disapprovazione tra i malati e i famigliari delle vittime presenti sugli spalti.
Eppure non aveva ancora pronunciato le parole più urtanti dell'arringa difensiva. Parole urtanti a tal punto, che Di Amato si è sentito in dovere di ribadire la premessa iniziale: «Sono considerazioni che faccio in punta di piedi, in tono sommesso, senza volontà di offendere». Poi, l'affondo: riferendosi alle decine di testimonianze di ex lavoratori e cittadini che hanno raccontato alla Corte dell'ambiente polveroso dentro le fabbriche dell'Eternit, dell'assenza di misure a tutela della salute, della diffusione del polverino nell'ambiente circostante e di altre nefandezze, ha parlato di «dichiarazioni in palese contrasto con le prove documentali». Dichiarazioni che sarebbero frutto di una «sommatoria di falsi ricordi», di una «ricostruzione immaginativa» dei fatti, indotta da una «rilettura collettiva» (ha fatto riferimento alle molte manifestazioni e mobilitazioni che hanno visto protagonisti sindacati e associazioni delle vittime) «che ha proposto una verità diversa da quella storica». A sostegno della sua tesi ha citato la testimonianza di una donna, titolare di una panetteria nei pressi della Eternit di Casale Monferrato, che descrivendo la polverosità di quel quartiere aveva omesso di dire che oltre a quello stabilimento c'erano anche dei cementifici che utilizzavano il cromo esavalente, che è un cancerogeno. «C'è qualcosa che non funziona nel ricordo delle persone», ha affermato Di Amato, sottacendo però il fatto che il cromo non provoca il mesotelioma, la più grave malattia da amianto che ogni anno a Casale colpisce ancora oggi, a venticinque anni dalla chiusura della fabbrica, una cinquantina di persone, sia tra gli ex lavoratori (ormai quasi tutti deceduti) sia tra i cittadini.
Infine, Di Amato se l'è presa con gli studi epidemiologici «non attendibili», perché «basati su documentazioni mediche imperfette e grossolane» ed ha sostenuto che comunque con l'arrivo dello svizzero i casi di malattia sarebbero diminuiti del 39 per cento rispetto al periodo belga. Gli studi epidemiologici (quelli presi in considerazione dalla difesa), ha ancora affermato, «danno ragione degli investimenti fatti e dei miglioramenti tecnici apportati» da Stephan Schmidheiny, che non è corretto identificare con il "signor Eternit", «un concetto sottilmente introdotto dall'accusa», ha concluso Di Amato.
Le arringhe dei difensori prenderanno ancora un paio di udienze: dovrebbero concludersi entro martedì della prossima settimana con la richiesta finale, che sarà probabilmente quella dell'assoluzione, come è già stato il caso settimana scorsa per il coimputato De Cartier.
La sentenza è attesa per febbraio 2012.

Pubblicato il 

21.10.11

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