«Non ci è rimasto più nulla. Possiamo solo pregare e sperare nella benevolenza di Allah!». Usa queste parole Hakim Zadi, pakistana di 25 anni, per riassumere il dramma iniziato a metà agosto, quando le piogge monsoniche si fecero più intense e l'area in cui vive è stata travolta da devastanti alluvioni. Al pari di migliaia di famiglie, Hakim è fuggita dalla violenza dell'acqua, abbandonando la propria casa ad inizio settembre, assieme al marito e a 4 figli. La incontro sotto una tenda coperta da un foglio di tela cerata, seguita da altri 70 ripari simili, allestiti uno dietro l'altro su una striscia di terra emersa, prima usata come strada. Tutto attorno si estendono decine di chilometri quadrati di campi allagati, e sebbene non piova ormai da 2 mesi, il sistema di drenaggio funziona poco e male a causa della conformazione del terreno argilloso e dell'innalzamento del livello della falda. A poche centinaia di metri dall'accampamento si scorgono le rovine di Jaffar Khas Kheli, il villaggio di Hakim, situato nel tehsil di Jahand o Mari, distretto di Tando Allah Yar, a 140 chilometri da Karachi, capitale economica del Pakistan e capoluogo del Sindh, la provincia più meridionale del Paese, tagliata a metà dal letto del fiume Indo e da una fitta rete di affluenti.
Secondo i dati forniti da Oxfam, una delle ong internazionali più attive nei territori alluvionati, la violenza dell'ultimo monsone e le conseguenti alluvioni, hanno colpito più di 9,7 milioni di persone, in particolare nel Sindh, dati avallati dalle stime del governo affidate alla National Disaster Management Authority. Per dare un metro di paragone, l'impatto sociale del disastro è considerato peggiore di quello del terremoto avvenuto ad Haiti nel 2010, e al terremoto del Pakistan del 2005 messi assieme. Sebbene il numero dei morti sia tutto sommato limitato (451 vittime accertate), ad oggi, 22 distretti su 23 rimangono inagibili a causa delle acque stagnanti. I villaggi, in gran parte rasi al suolo, non possono ancora essere ricostruiti, e gli abitanti del posto sono costretti ad una vita di inerzia, accovacciati sulla terra nuda che funge da pavimento nelle tende, in attesa degli aiuti esterni.
«Prima ero una sarta, confezionavo abiti per le donne della zona», racconta Hakim, seduta su un traballante letto in legno e corde intrecciate, di giorno usato come sedia, tavolo per mangiare e luogo di incontro. «Avevo acquistato una macchina da cucire per 5 mila rupie (52 franchi, ndr), ma c'è stata la piena e l'acqua ha coperto tutto. Non posso più lavorare in quanto l'attrezzatura è andata perduta nel fango, mi sento deprivata della mia vita». La giovane sarta di Jaffar Khas Kheli serviva la gente dei villaggi vicini, lavorava in modo continuativo sebbene non svolgesse un'attività regolamentata, priva di assicurazione e rappresentanza sindacale. Tra un abito e l'altro, Hakim accudiva la casa, i figli, una capra e qualche pollo, e aiutava i genitori del marito, un guidatore di rickshaw, nella lavorazione di un fazzoletto di terra situato poco lontano, seminato a legumi e verdure, il cui raccolto forniva una preziosa integrazione alla dieta quotidiana. Ora tutto è perduto. «Non abbiamo più gli introiti di prima, e da quando viviamo in questa tenda, i figli si ammalano uno dietro l'altro, così i pochi soldi messi da parte li spendiamo in medicine. Mio marito è l'unico a lavorare ora, ma il guadagno non copre i costi. Non si può andare avanti così».
Al pari di Hakim, migliaia di altre famiglie del Sindh rischiano la rovina totale. In tempi normali, da queste parti la vita è comunque difficile. La maggior parte della popolazione lavora come bracciante nei terreni dei proprietari locali. Nel tehsil di Jahand o Mari, al pari di gran parte delle aree rurali del Pakistan, vige una sorta di sistema feudale che attribuisce a pochi individui un notevole potere decisionale e il controllo sulle ricchezze del territorio, inclusa la forza lavoro. L'impiego nelle distese di legumi, di canna da zucchero, di cotone, costituisce l'unica fonte di reddito, e per la gente di qui, ritagliarsi il proprio spazio nei campi è una sicurezza irrinunciabile. Poco importa se non esistono contratti di assunzione, se i salari, quando riconosciuti, sono ridotti all'osso, e se ai braccianti tocca presentarsi sui campi muniti delle proprie attrezzature. Manca qualsiasi assistenza sanitaria, quindi un semplice infortunio durante una giornata di lavoro può segnare irrimediabilmente il destino di una famiglia, magari costringendola a richiedere un prestito agli strozzini, praticamente impossibile da ripagare a causa degli interessi altissimi, diffondendo il fenomeno della schiavitù da debito, che in Pakistan rappresenta una piaga insanabile. La deriva in corso nelle campagne pakistane è favorita dalla quasi totale assenza di organizzazioni sindacali, che comunque, se esistono, agiscono in aree circoscritte, sono poco influenti e spesso segnate dalla corruzione dei propri rappresentanti.
«Ogni famiglia vive con poco più di 100 rupie al giorno (un franco per 7 persone. ndr)» spiega Muhammad Ismail, 45enne capo del villaggio di Jaffar Khas Kheli. «Prima delle piogge i campi erano in buone condizioni, poteva essere un'ottima annata. Vedi laggiù?», insiste puntando il dito verso un terreno allagato, «quella è una piantagione di cotone pronta per il raccolto, ma l'acqua è troppo alta e possiamo solo stare a guardare mentre tutto marcisce». L'assenza di fonti di reddito impedisce alla popolazione di mettere da parte del danaro, e una volta che le acque si saranno ritirate, sarà impossibile ricostruire le case, così come riprendere a lavorare visto che gran parte delle attrezzature sono seppellite nel fango.
L'ondata di piena raggiunse il villaggio di notte, e gli abitanti di Jaffar Khas Kheli lasciarono le case di fretta, prendendo alcuni teli di plastica e qualcosa da mangiare. «Ci siamo radunati tutti su questa striscia di terra, accumulando in posizione rialzata i sacchi di riso, legumi e farina prelevati dalle dispense» continua Muhammad, «abbiamo atteso gli aiuti dei soccorritori per due settimane, razionando il cibo. Mangiavamo una volta al giorno. Dovevamo cucinare sotto ai teli di plastica per proteggerci dalle piogge incessanti, con l'acqua perennemente alle caviglie, anche nei punti più elevati». In mancanza di latrine e strutture adeguate, la gente doveva (e in molti villaggi ancora deve) espletare i propri bisogni all'aperto, nella stessa acqua usata per lavare le stoviglie, per l'igiene personale e addirittura per bere, favorendo la diffusione di virus intestinali. Il proliferare delle zanzare ha moltiplicato i casi di malaria, mentre nubi di mosche attirate dal puzzo delle acque putride contribuiscono alla diffusione dei batteri. «Nel nostro villaggio una bimba di sei anni è morta di dissenteria, si chiamava Swagat, mentre in un villaggio vicino hanno perso la vita due anziani per la stessa causa, e un terzo uomo è stato ucciso dal morso di un serpente durante la fuga dal villaggio». La situazione è migliorata nella seconda metà di settembre, quando i soccorsi governativi hanno munito la popolazione di tende e qualche utensile, mentre gli operatori di Oxfam hanno fornito kit per l'igiene, realizzato latrine funzionanti e installato cisterne per la raccolta dell'acqua potabile. Fino ad allora, l'unica fonte di acqua salubre era una pompa situata a 3 chilometri di distanza, dove migliaia di persone dell'area attingevano con secchi e recipienti, dando vita a veri e propri pellegrinaggi, ripetuti più volte al giorno.
Il ritorno ad una vita accettabile, o comunque meno incerta sembra lontano, almeno finché l'acqua non sarà drenata. Me ne accorgo nel villaggio di Hashim Memon, nel tehsil di Chambar, dove la costruzione delle nuove latrine viene celebrata da gran parte della comunità, composta da musulmani, hindu e da qualche cristiano. All'interno dell'accampamento, anche qui sorto lungo strade di terra rialzate, i più piccoli stanno seduti in due tende destinate ai corsi di educazione sanitaria organizzati dal personale di Oxfam. Le bambine nella tenda di destra, i bambini in quella di sinistra, assistono alle lezioni di lavaggio delle mani, di gestione dell'acqua potabile volta alla riduzione degli sprechi, e imparano dai grandi, in genere membri della stessa comunità (per i quali il training è altrettanto utile), come utilizzare sapone, asciugamani, dentifricio, etc.. Le scuole sono appena state sgomberate dal fango, ma le lezioni non riprendono in quanto i maestri che vivono in città si rifiutano di tornare nelle aree alluvionate, o comunque non garantiscono una frequenza costante.
Malgrado le ristrettezze, ad Hashim Memon la situazione è tutto sommato accettabile. Almeno ci sono cisterne per l'acqua e latrine. In altri villaggi dello stesso tehsil invece, situati poco lontano, la popolazione non ha ancora ricevuto le tende e continua a vivere in capanne di giunco e rami, con stoffe e lenzuola a fare da tetto. L'inverno è alle porte ma le coperte non sono ancora arrivate, al pari di rassicurazioni per il proprio futuro. La colpa viene attribuita al governo, i cui aiuti sono lenti, scarsi e irregolari. Il malcontento si diffonde, e per la gente di qui «non c'è abbastanza, abbastanza in fretta», e nei giorni della mia visita si sono verificate manifestazioni accese, talvolta violente, tanto da richiedere il dispiegamento delle forze dell'ordine per arginare il problema.
Lasciando le zone alluvionate, lungo la strada per Hyderabad (area meno colpita dalle piene), man mano che l'estensione delle acque si affievolisce, scorgo le tracce di una ripresa, piccoli segni di cambiamento. Da una polverosa strada laterale esce un carretto trainato da un dromedario, colmo di mattoni destinati alle prime ricostruzioni. Un po' più all'interno, nella direzione da cui proviene il carico, una colonna di fumo denso vomitata dal camino di una fornace sorvola una distesa arida, coprendo uomini, donne e bambini chini, impegnati a pieno regime nella fabbricazione di mattoni, in una delle tante fabbriche illegali gestite da malfattori collusi con le autorità locali. Per questi ultimi, l'alluvione e le inevitabili distruzioni rappresentano un'opportunità senza eguali con cui pompare gli affari grazie all'aumento della domanda, e la manovalanza gratuita degli schiavi da debito (l'80 per cento della forza lavoro impiegata in questo business) è garanzia di lauti guadagni, anche in tempi di crisi.

Pubblicato il 

09.12.11

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