All’alienazione teologica e a quella capitalistica, il mondo contemporaneo ha sovrapposto un’altra forma di alienazione, quella dell’epoca della tecnica.
A Ludwig Feuerbach dobbiamo la diagnosi della prima forma di alienazione, quella che porta l’uomo a proiettare e a oggettivare in una potenza infinita e esterna a lui, ossia in Dio, la sua propria ragione e volontà, e ad assoggettarsi ad essa. L’illusione religiosa, con l’oppressione morale che essa per secoli ha comportato, vive di questa paradossale estraniazione nella quale l’uomo opprime inconsapevolmente sé stesso. A Marx dobbiamo poi la diagnosi della seconda forma di alienazione, che concerne l’organizzazione capitalistica della produzione. Il lavoro, invece di svilupparsi come attività realizzatrice dell’umano, si capovolge in mortificazione patogena della soggettività.


«La svalutazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose», nel quale finisce con lo smarrirsi anche il senso del lavoro che diventa essenzialmente lavoro estraniato.
Già in Marx, questa critica si intrecciava con la considerazione della trasformazione dei mezzi di lavoro avvenuta con la rivoluzione industriale. Esterno al soggetto, il lavoro, sostituendo gli strumenti con i macchinari, lo diviene sempre di più, e tanto più esterno ed estraniato nella misura in cui la macchina diventa «sistema automatico di macchinari azionato da un automa, forza motrice che muove sé stessa».


La produzione assume sempre più i tratti del perpetuum mobile, e laddove avrebbe dovuto scandirsi il vivo processo sociale di scambio organico con il mondo naturale affiora, come avverte ancora Marx, nonostante le sue grandi speranze dialettiche, «un mostro meccanico che con il suo corpo riempie interi fabbricati e la cui forza demonica esplode nei matti e febbrili turbini di danza dei suoi innumerevoli organi di lavoro…».  


Ora, la terza forma di alienazione, nella quale si esprimono anche le altre due, proviene proprio da qui, dall’esplosione di questa forza “mostruosa” della tecnica a contatto con la “riproduzione allargata” del capitale. Essa è caratterizzata da una sproporzione, se non da una lacerazione, fra l’uomo e gli impianti della tecnica, che sembrano imporsi con le loro necessità e con i loro imperativi come provvisti di una incomparabile importanza e potenza, ormai dotati di una superiorità ontologica oltre che economica nei confronti del mondo di scala ancora “solo” umana. Per pensare questa terza forma è utile ricordare il concetto di “dislivello prometeico”, elaborato da Günter Anders, attorno al 1950: noi, figli e i nipoti di quel Prometeo che rubò le tecniche agli dei, sembriamo cadere vittime, ancora una volta, di uno strapotere estraniato, ora stratificato in forma tecno-capitalistica  oltre che mitico-teologica.


In questa luce, si capisce che ciò che resta dell’uomo e della sua società politica, oggi sembra trovarsi sempre più coinvolto nel mondo sproporzionato della dismisura tecnocratica, il mondo in cui le cosiddette “grandi opere”– dalla Tav alle grandi navi al Muos, all’ennesimo scempio urbanistico –  sembrano provviste di una intrinseca e incontestabile necessità,  imposta come inappellabile nonostante i notevoli movimenti contrari. Gli interessi di Prometeo combinati con quelli di Mercurio, dio del guadagno e dei ladri, si scontrano senza troppi riguardi con quelli della democrazia. Lungi dall’aver superato o in qualche modo riassorbito l’alienazione,  la tarda modernità la sta insomma un po’ ovunque celebrando, riconfigurandola e portandola anche a  scala colossale. Non di rado sacrificando per Prometeo e per Mercurio anche ogni calcolo prudenziale. Il minaccioso fuori scala delle colossali grandi navi a Venezia, da questo punto di vista, appare come il simbolo stesso della paradossale condizione contemporanea.

Pubblicato il 

05.06.14

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