"Pensa con i sensi. Senti con la mente": questo il titolo emblematico con cui Robert Storr ha inteso riassumere il significato della rassegna da lui curata. Con questo paradosso – solo all'apparenza nuovo, ma in realtà da sempre intimamente connaturato, anche se in intensità diversa, con l'atto della creazione artistica – il direttore artistico della 52. Biennale d'Arte di Venezia calca la mano sulla dimensione provocatoria dell'arte e invita il visitatore a superare i limiti di una comprensione soltanto razionale o soltanto emotiva delle opere esposte: una sfida alla nostra capacità di comprensione, un invito a rompere gli steccati di un pensiero irrigidito e a lasciarsi sollecitare a diversi livelli (intellettuale, emotivo, percettivo) dalla complessa realtà in cui siamo immersi. Una rassegna dunque destinata a fruitori "volonterosi", disposti a interrogarsi e non farsi prendere dallo sconcerto, di non sapere immediatamente cosa pensare o cosa dire di fronte al nuovo.


Guerre e disastri ecologici

Bastano pochi passi dentro l'Arsenale per cogliere il filo conduttore di questa Biennale, più contenuta di altre per numero degli artisti e di opere presentate e quindi più fruibile. Si è subito investiti, per non dire subissati da temi di attualità, di natura politica, ecologica, sociale, esistenziale. Nell'impossibilità di dar conto di tutto, segnalerò alcuni degli artisti e delle opere che più mi hanno colpito. Nel secondo vano colpisce un Cristo crocifisso sotto il ventre di un caccia americano che precipita in picchiata (nella foto), con cui l'artista, l'argentino Léon Ferrari, esprime un giudizio impietoso sulla civiltà cristiana occidentale, «che si sta avvicinando al più alto livello di barbarie mai registrato nella storia». Di altra natura, esteticamente ineccepibile ma tragicamente toccante la serie di fotografie di Gabriele Basilico sulle devastazioni della guerra civile a Beirut a partire dal 1991: uno sguardo intenso sulla realtà di un'implacabile calamità autoinflitta, di un mondo in cui nemmeno il più becero distruttore può vivere. Un'ulteriore denuncia del costo in vite umane della guerra in Iraq viene dalla giovane americana Emily Prince, con l'impressionante serie di "immaginette" disegnate con l'effige dei caduti, intercalate da altre, appositamente lasciate in bianco, nella tragica attesa di essere a loro volta "completate".
Potrebbero invece passare quasi inosservate le fotografie di Yto Barrada, nata in Francia ma residente in Marocco, che documentano la trasformazione del paesaggio naturale in paesaggio umano della penisola di Tangeri nel Nord del Marocco e il relativo disastro ecologico con la scomparsa di una notevole biodiversità che ha lasciato il posto a un'anonima città moderna in riva al mare con una vegetazione lussureggiante fatta di palme: trasformazioni che declinano, come si legge più o meno nel testo che affianca le fotografie, la grammatica del potere nella grammatica della botanica. E forse in questo caso la parola, folgorante, può più dell'immagine!
Non passa invece inosservato, anche se non convince perché fin troppo esplicito, il video con cui Paolo Canevari ci vuol significare la troppo facile assuefazione alla guerra, ai suoi     disastri, mostrandoci un ragazzino che palleggia con un teschio su un terreno vuoto, antistante il quartier generale dell'esercito serbo di Belgrado cui fanno da quinta edifici distrutti.
Molti artisti si sono concentrati invece sul versante esistenziale, interrogandosi con sensibilità diverse sul tema della morte. Tra questi le opere di Angelo Filomeno, che, rifacendosi esplicitamente alle incisioni del Dürer, propone una sorta di danza macabra reinterpretata in chiave moderna, quasi sfarzosa, "incisa" attraverso ricami shantung di seta su lino con cristalli e onice; il Proyecto para un Memorial del colombiano Oscar Muñoz, un video con cui l'artista richiama, attraverso immagini fotografiche che si ricompongono progressivamente, l'unica forma di presenza possibile di tante assenze, molte delle quali tragiche; I Will Die del cinese Yang Zehnzhong, che ci saluta, lasciando l'arsenale con la frase "Io morirò", declinata in una miriade di lingue da altrettante persone, la cui espressione, di fronte a un destino che accomuna tutti, viene scandagliata prima e dopo aver pronunciato la fatidica frase.
Ma altre sono, a mio avviso, le sorprese più belle della mostra all'Arsenale. Y.Z. Kami, nato a Teheran, cresciuto nell'Iran prerivoluzionario, ora attivo a New York, è qui a farci partecipi delle emozioni che la pittura, una pittura figurativa di grande qualità e potenza evocativa, può ancora trasmetterci. In Conversation in Jerusalem il pittore accomuna i ritratti dei cinque patriarchi di Gerusalemme esponenti di cinque diverse religioni, riunendoli virtualmente tutti assieme, ciò che non era mai avvenuto in precedenza, come mi è stato spiegato, se non in un'unica occasione, per manifestare l'opposizione al Gay Pride di Tel Aviv.
Altre opere di grande impatto, in cui la dimensione estetica, a differenza di molte altre, ha una sua valenza specifica, sono i lussureggianti e cromaticamente vivacissimi "arazzi" di grandi dimensioni del ghanese El Anatsui, che realizza, attraverso un linguaggio e una sintassi personalissime, con materiali d'alluminio riciclati (tappi di bottiglia, traghette metalliche d'imballaggio e quant'altro). Il cinese di Pechino Yang Fudong, infine, ci calamita letteralmente con un video in bianco e nero in cinque parti, della durata di quasi un'ora: Seven Intellectuals in Bamboo Forest, che trae spunto dalla storia di sette brillanti intellettuali, celebri poeti e artisti dell'epoca delle antiche dinastie cinesi, antesignani di un irresistibile anelito all'individualità, alla libertà e alla licenziosità.

Temi esistenziali e libertà civili

Da diverse edizioni il Padiglione Italia ai Giardini è considerato dai diversi direttori artistici succedutisi al vertice della Biennale snodo fondamentale dell'articolazione dei loro progetti. Esso accoglie anche quest'anno numerosi artisti che hanno segnato con le loro proposte innovative, con la loro spiccata personalità, la  seconda metà del secolo scorso: da Gerhard Richter, le cui opere, intitolate Cage, sembrano riscoprire un astrattismo lirico ormai dimenticato, in cui il levare, il rimuovere strati di colore, il cancellare vogliono riecheggiare la musica per pianoforte del grande maestro, alle Series, realizzate nel 2003-2004 da Robert Ryman, in cui l'artista americano, offrendoci poesia ed emozioni, rinnova il suo epocale impegno a dipingere in bianco; dalle grandi tele di Sigmar Polke, originario della Germania est, già protagonista della pop art tedesca degli anni sessanta, accanito sperimentatore, che ora indaga su supporti e pigmenti che consentono di ottenere effetti cangianti a seconda della luce a Jenny Holzer, che, lasciate per una volta le insegne a Led e le proiezioni luminose di testi scorrevoli, ci propone alcuni oli su lino ispirati da un documento quale Alternative Interrogation Techniques – Wish List (tecniche alternative d'interrogatorio – Lista Suggerita) e da altri documenti, che costituiscono un vera e propria denuncia contro certi metodi d'inchiesta usati dal suo Paese e a tanti altri tra cui l'immancabile  Louise Bourgeois, Ellsworth Kelly, Sol Lewitt, Fred Sandback.
Da quest'anno l'Italia, Paese ospitante, dispone nuovamente di un proprio padiglione, non ai Giardini, ma ricavato nello spazio suggestivo delle Tese delle Vergini all'Arsenale.
Ida Gianelli, direttore del Museo d'Arte Contemporanea del Castello di Rivoli, alle cui cure è stato affidato il nuovo padiglione Italia, ha compiuto una scelta drastica. Due soli artisti, Giuseppe Penone e il più giovane Francesco Vezzoli rappresentano la scena artistica italiana di oggi con opere ideate per l'occasione. Penone si esprime in un'ottica contemporanea ma con materiali tradizionali quali il marmo, il legno e il cuoio. Vezzoli invece ha realizzato una istallazione video dal titolo DemoCrazy, gioco di parole che accomuna democrazia a pazzia. Facendo capo a due collaudati team di "media advisor", simula una campagna elettorale all'americana, in cui in due brevi video della durata di un minuto si confrontano due candidati, uno interpretato dal filosofo Bernard-Henri Lévy e l'altro da Sharon Stone, mettendo a nudo i meccanismi manipolatori che sottendono questo tipo di comunicazione.
Tra i padiglioni nazionali vorrei citare quello della Francia, in cui Sophie Calle ha sottoposto a oltre un centinaio di donne una mail di rottura da lei ricevuta, che terminava con le parole "Abbia cura di sé" e alla quale non ha saputo rispondere, chiedendo loro di interpretarla, analizzarla, commentarla, cantarla, danzarla, mettendo a confronto tante professionalità con altrettante sensibilità e risposte, molto diverse tra di loro, che sono esposte in appositi raccoglitori e accompagnate da altrettanti video, tra cui anche uno della Litizzetto. Anche il padiglione del Giappone non lascia insensibili con il rilievo di Masao Okabe che per ben nove anni ha rilevato, mediante un frottage a matita su carta, il cordolo in pietra della stazione ferroviaria del porto di Hiroshima prima che fosse demolita: un lavoro di una perseveranza tutta orientale, impressionante per ampiezza (circa quattromila fogli), che nelle intenzioni dell'autore vuole aiutare la società contemporanea a cercare modi per venire a capo del proprio passato.
Il padiglione della Svizzera ospita due artisti, Yves Netzhammer e Christine Streuli. Il primo propone un'installazione complessa (pittura, video, colonna sonora e inserimento di un piano inclinato che interferisce nella struttura del padiglione, che fu ideato nel 1951 dall'architetto Bruno Giacometti); la seconda, con un articolato intervento "Go  North, Go South, GoEast, Go West", scandaglia, con riferimenti iconografici tratti da realtà diverse e riportati sulle pareti con metodo indiretto, i rapporti tra grafica e pittura senza rifuggire da aspetti decorativi, tra controllo dell'immagine e accadimento pittorico esplosivo. La Svizzera è inoltre rappresentata nella Chiesa di San Stae da due artisti ormai affermati: in uno spazio bianco, isolato, asettico, inserito all'interno dell'edificio religioso, Ugo Rondinone propone dei calchi di ulivi fusi in alluminio e dipinti di bianco, dall'apparenza spettrale, che esaltano l'astrazione delle linee senza (quasi) più riferimento al dato concreto; Urs Fischer (presente pure a Palazzo Grassi nella mostra Séquence 1 – pittura e scultura nella Collezione Pinault) con poderose immagini di grande formato stampate su alluminio, in cui mondi microscopici di trasformano in mondi macroscopici, crea spazi illusori e sfuggenti.
L'importanza dei padiglioni nazionali, peculiarità della rassegna veneziana, che non trova riscontro in nessun'altra rassegna del genere, è sottolineata dal fatto che Storr ha voluto inserire nel suo progetto, alle Artiglierie dell'Arsenale, una mostra che rappresenti in modo significativo la produzione artistica del Continente Africa. Chek List Luanda Pop, questo il nome della padiglione africano, ci propone una grande varietà delle forme d'espressione dell'Africa di oggi, mettendo paradossalmente o forse provocatoriamente al centro della sala, quasi a fare da leitmotiv un'opera europea di Miquel Bacelõ dall'emblematico titolo "Noyau noir".

Molti altri sono gli stimoli che offre a tutto campo la 52esima Biennale d'Arte di Venezia, che, come detto, si presenta più fruibile e meno ostica di altre e in cui tutti, anche i meno avvezzi a simili frequentazioni, possono raccogliere molti spunti di riflessione sulla contemporaneità.

Pubblicato il 

29.06.07

Edizione cartacea

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