General Mosconi, 1.100 chilometri a Nord di Buenos Aires sulla direttrice che collega l’Argentina alla Bolivia. Un picchetto di operai edili blocca la "ruta 34" per protestare contro la riduzione della paga oraria da 2,5 a 1,5 pesos. Una paga da fame, in un paese dollarizzato dal re dei liberisti latino-americani Domingo Cavallo, che prima ha fissato la parità peso-dollaro in Argentina, poi è caduto in disgrazia in patria ed è stato assunto dal governo dell’Ecuador per combinare lo stesso disastro a Quito, con la conseguente rivolta dei campesinos, infine è stato richiamato a Buenos Aires nelle vesti di superministro economico per completare il lavoro sporco da lui stesso avviato. La polizia di General Mosconi interviene con le armi: due operai ammazzati, uno in fin di vita e una trentina feriti gravemente. È cronaca di ieri. In quest’angolo lontano del mondo stanno affluendo operai e disoccupati da tutta la provincia di Salta per sostenere la lotta degli edili. Di tutto questo si trovano ben poche tracce nei siti internet dei grandi sindacati europei e nordamericani, così come poco sanno i nostri lavoratori, delle lotte nelle sedi delocalizzate delle grandi multinazionali che hanno trasferito la produzione in Argentina, o in Brasile. Gli operai della Fiat di Cordoba hanno sostenuto lotte durissime per salvare il loro lavoro e uno stabilimento inaugurato in pompa magna dagli Agnelli negli anni Novanta. Quella fabbrica sta chiudendo, di chi conduce quella lotta raccontano qualcosa solo gli operai Fiat di Belo Horizonte in Brasile, che spediscono per posta elettronica un po’ di informazioni alla Fiom italiana o alla Ig-Metal tedesca. Quando erano loro, i lavoratori brasiliani della Fiat, a scontrarsi con la polizia che cancellava nel sangue sciopero e vite umane, nessuno lo raccontava. Per questo, poi, la Cut si è data uno strumento di comunicazione internazionale con cui si è costruita una prima, embrionale rete globale di solidarietà proletaria. Alla fine, grazie a un’altra rete europea che si batte contro lo sfruttamento selvaggio messo in atto in Asia, in Africa e in America latina dalle multinazionali di casa nostra, anche gli indiani mapuche in Patagonia sono riusciti a socializzare la loro lotta, per esempio contro la Benetton, che aveva aggredito il loro territorio inquinandolo, deviando il corso dei fiumi, insomma mettendo a rischio in nome del profitto gli ultimi nativi di quel pezzo di Cordigliera delle Ande che lega Argentina e Cile. E una battaglia sindacale, culturale e politica ha costretto la trevigiana Benetton a trattare con i mapuche. Nike, Nestlè, multinazionali dei farmaci, devono fare i conti con una protesta che sta diventando globale, ma antiliberista. Che c’entrano i sindacati con la globalizzazione, chi legge questo giornale l’avrà già capito da tempo: la Svizzera è terra di immigrazione e di multinazionali, di banche e transazioni finanziarie, è qui che molte carte della globalizzazione liberista — l’unica che oggi esista davvero — vengono giocate in modo spregiudicato. Si dovrebbe capire dunque la ragione per cui la Fiom, il più importante sindacato italiano, quello dei metalmeccanici, ha deciso di aderire attivamente al Genoa social forum che dal 20 al 22 di luglio occuperà la città di Genova contro il G8. La Fiom aderisce perché ha alle spalle alcune esperienze importanti di solidarietà internazionale, già prima di Seattle e di Porto Alegre. Un sindacato che difende i suoi lavoratori non può non occuparsi di quel che le aziende nazionali combinano in quanto a sfruttamento selvaggio, lavoro minorile e inquinamento nei luoghi della globalizzazione: nei Balcani bombardati ma anche colonizzati dall’industria manifatturiera italiana, francese, tedesca, olandese, canadese e statunitense; oppure in Cina e in India, in Sudafrica e in Marocco, in Turchia e in Ukraina, in Argentina e in Brasile. Un sindacato occidentale che interviene nei cantieri navali dei porti italiani deve fare i conti con la "l’esercito di riserva" croato e moldavo, operai disposti a vendersi per quattro soldi rinunciando alla sicurezza, sul lavoro e del futuro. Sono nemici, questi lavoratori, oppure bisogna rivendicare per loro lo stesso trattamento conquistato dai loro compagni italiani? Se non si sceglie questa seconda strada, la guerra tra poveri sarà inevitabile, con tanto di razzismo e dumping sociale. Quel che non si capisce, semmai, è l’assenza delle grandi centrali nazionali ed europee dei movimenti di lotta contro la globalizzazione liberista. Quel che non si capisce è perché nessuna struttura sindacale importante (la Ces europea, per fare un nome) si sia messa alla testa di un movimento critico nei confronti della Carta europea dei diritti e della logica per cui l’allargamento a Est dell’Unione europea prevede libertà assoluta per i capitali, ma per i lavoratori orientali una moratoria di sette anni, un lungo purgatorio in attesa che il differenziale salariale tra Est e Ovest si riduca. Come se non fossero il capitale occidentale e gli organismi finanziari internazionali a imporre licenziamenti, privatizzazioni, bassi salari, smantellamento dello stato sociale in quei paesi disgraziati. Quel che non si capisce, semmai, è la diffidenza con cui i grandi sindacati guardano a una delle sigle del composito movimento di Seattle, Attac, che rivendica una legge moderata e keynesiana inventata da quell’economista borghese di Tobin, in cui si prevede una minima tassa "sociale" per tutte le transazioni finanziarie. Come a Seattle il sindacato americano scese in campo con i giovani, gli ambientalisti, le donne, le organizzazioni anti Wto, per l’azzeramento del debito dei paesi poveri; come a Porto Alegre insieme alla Cut brasiliana — e i contadini senza terra, e i nativi e tutti gli altri — si incontrarono spezzoni di sindacati europei; così a Genova in forme diverse si mescoleranno al popolo di Seattle gruppi di lavoratori, sindacati di base, qualche centrale importante come la Fiom. Ci saranno gli eredi delle Marce europee per il lavoro, contro la disoccupazione e l’esclusione, che per anni hanno attraversato l’Europa contro il liberismo e la globalizzazione. Ci saranno gli operai belgi della Renault di Wilvoorde, che riuscirono a costruire una grande lotta partita dalla base in Belgio, in Francia, in Spagna e in Slovenia e lasciata sola dai grandi sindacati, perciò sconfitta. Una rete "globale" comincia timidamente a intrecciare pezzi di movimento operaio occidentale e orientale, nordista e sudista e a metterlo in comunicazione con chi si batte contro la pena di morte e lo sfruttamento minorile, contro la deforestazione e il buco dell’ozono, contro il razzismo e per la banca etica. La parola d’ordine, anche a Genova come a Porto Alegre, non è "contro" ma "per": "Un mondo diverso è possibile". Roba che deve interessare i lavoratori e i sindacati a costruire una pratica comune. Un’utopia? Senza utopie il movimento operaio non sarebbe neppure nato. Se il Forum prendesse il largo Qualcuno deve aver spiegato, a Berlusconi e al suo ministro degli interni e cavalier servente Scajola, che trasferire il summit del G8 di luglio su una nave per evitare contestazioni sarebbe stato sì uno scacco matto, ma da parte del Genoa Social Forum ai danni dei potenti della terra. Ve li immaginate, Bush, Berlusconi e tutta l’allegra compagnia costretti a incontrarsi in mezzo al mare, in una portaerei o in un supertraghetto di lusso, protetti da navi d’appoggio armate di tutto punto alla ricerca di pattìni pieni di tute bianche, o di sommergibili-bomba telecomandati dal nemico numero uno degli Usa, lo sceicco miliardario Bin Laden, o di petroliere occupate da terribili ceceni con il coltello tra i denti? No, non stiamo delirando e i tre soggetti che abbiamo citato — popolo di Seattle, estremismo islamico e terrorismo ceceno — sono effettivamente quelli che turbano i sonni degli organizzatori del G8. Però, portare il summit alla fonda del porto di Genova sarebbe stata l’ammissione di una sconfitta, l’incapacità di governare il territorio, la presa d’atto che solo di nascosto e fuori dalla società civile gli otto paesi più potenti possono decidere il bello e soprattutto il cattivo tempo in tutto il pianeta Terra. Così, alla fine martedì hanno deciso che il luogo destinato agli incontri rimane il Palazzo Ducale della città ligure. E il summit si farà a ogni costo, la richiesta di annullamento — non di spostamento, il problema non è Genova, ma il G8 — avanzata dal movimento e da Rifondazione comunista è stata rinviata al mittente. Si farà in una città blindata, divisa in zone rosse iperproibite, in zone gialle e in zone franche, recinti dove rinchiudere decine e decine di migliaia di giovani e meno giovani contestatori da far girare in circolo fuori dai bunker blindati, come i detenuti nell’ora d’aria. Dopo la sciagurata e criminale gestione militare del vertice di Goeteborg, il governo italiano si trova in mano una patata bollente: garantire il G8 evitando la guerra. Ma si sa che i recinti non terranno e in tanti cercheranno di abbatterli, senza armi ma con determinazione. E l’armata dei potenti — 18.000 militari a protezione di 8 uomini e dei loro portaborse — risponderà agli scudi di plastica, agli spintoni e agli slogan con le armi? Il governo Berlusconi sta parlando molte lingue: quella di guerra del premier — sono tutti teppisti — e quella del ministro degli esteri Ruggiero — i contestatori si preoccupano delle stesse cose di cui ci preoccupiamo noi del G8, hanno diritto di manifestare, ci dobbiamo parlare ma guai alla violenza, non vogliamo morti. Ma allora, come mai la superorganizzazione del summit ha fatto arrivare a Genova 200 sacchi speciali (ricordate le body bag del Vietnam?) per contenere eventuali cadaveri? E come mai si sarebbe allestito un locale refrigerato di 500 metri quadrati per conservare eventuali salme insaccate? Ora Berlusconi e Ruggiero tentano di dividere i buoni dai cattivi, cercando tra le oltre 700 organizzazioni di tutto il mondo che hanno aderito al Genoa Social Forum quelle "più responsabili". Il Gsf ha già detto in tutte le salse che farà il possibile per evitare ogni forma di violenza ma non accetterà recinti, "il G8 deve fallire". In realtà, il G8 è già fallito, in tutto il mondo milioni di persone hanno decretato la fine della gestione imperiale dell’ambiente e delle armi, delle risorse e delle forze del lavoro. I veri prigionieri nel recinto sono proprio loro, i G8. La globalizzazione è liberista e non neutrale. Questo messaggio sta passando tra la gente, e più si farà strada, meno spazio resterà al pensiero unico in divisa. Cancellare il G8 vuol dire tentare di portare l’arma della politica là dove finora ha prevalso la politica delle armi. Quale libertà hanno lasciato in Kosovo le bombe umanitarie all’uranio? Quale mercato ha aperto il liberismo in Argentina o in Russia? E l’ozono ridotto a un colabrodo per difendere il diritto di un frammento di mondo di possedere un’automobile a testa? E il debito, le guerre, le multinazionali del farmaco che stanno cancellando la vita nel continente africano? Di questo parla il popolo di Seattle, su questi temi intorno al Gsf si stanno stringendo i giovani in cerca di senso e di politica e i meno giovani resi orfani dal suicidio della politica, e gli operai orfani del lavoro e dei diritti. Genova può essere un’occasione per ricominciare a camminare insieme. Non saranno le minacce del terrorismo internazionale — quello del G8 e quello di Bin Laden — a spezzare questo cammino.

Pubblicato il 

22.06.01

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