Sulla fine dell’anno festeggeremo forse l’utopia. Forse semplicemente perché ricorre in dicembre l’anniversario della nascita di quel termine e la pubblicazione del libro che ne porta il nome: 500 anni fa l’umanista inglese Tomaso Moro pubblicava appunto “L’Utopia”. Vi si descriveva un viaggio immaginario in un’isola e in una società che, senza essere ideale, funzionava comunque meglio di quella dei suoi tempi. Che criticava fortemente. E infatti finì con la testa mozzata per ordine del re. Utopia, dal greco u-topos, un non-luogo, un paese di felicità, un progetto auspicabile, anche se forse irrealizzabile. Di utopisti e utopie ce ne sono stati poi molti, e l’utopia si è confusa con ideologia, rivoluzioni, tirannie per imporle.


Vale la pena di parlarne per almeno tre motivi: perché si è detto che l’utopia è finita; perché in realtà ne è rimasta una sola, fallimentare; perché  l’utopia è anche necessaria.
Si è detto che l’utopia è finita con la caduta del muro di Berlino. Essa aveva due pretese: pretendere di incarnare una società giusta, unificata, armoniosa; pretendere di essere razionale, proponendo la pianificazione centralizzata come modello scientifico d’organizzazione della società. Si è scritto che finì per due motivi: perché la razionalità perfetta non esiste, c’è sempre una complessità che supera la razionalità; perché il conflitto, la divisione sociale, superano sempre ogni pretesa di armonia e di unità.


Non è però vero che l’utopia è definitivamente crollata con il muro di Berlino. Al di qua del muro, proprio dagli anni Ottanta, quasi in contrappunto, si è dato vita ad un’utopia che è diventata addirittura “pensiero unico”. E allora impressionano singolari analogie tra la defunta utopia e quella che ci nutre ancora nonostante i fallimenti. La nostra utopia ha posto il libero mercato al centro di tutto, unico giudice perché perfettamente razionale. Nella realtà e nella complessità dei fatti è risultato invece tremendamente irrazionale, tanto da moltiplicare le crisi e da generarne una, che stiamo ancora subendo, conseguenza di estreme irrazionalità e assurdità, da cui non si riesce a liberarsi. La nostra utopia è poi stata impostata sull’assioma più folle che si poteva immaginare: quello della crescita (anche del mercato) che non ha limiti, senza fine, unico obiettivo da inseguire per tutta l’umanità. Solo essa è la ragion d’essere, anche perché si è riusciti a far credere che la ricchezza creata e moltiplicata, anche se si accentra in pochi, finisce sempre per discendere su tutti creando felicità (il famoso principio reaganiano del “trickle down”, dello sgocciolamento che scende verso il basso inondando tutti).

Ci si accorge però che le risorse sono limitate, che i disastri causati dallo  sfruttamento senza limite di ambiente e natura ci fanno sbattere contro un altro muro più tremendo, che la crescita non cresce più, che la ricchezza si accumula in poche mani e non sgocciola, che le diseguaglianze spaventano e i conflitti le guerre le tensioni si moltiplicano.
L’esigenza di utopia rimane forte, come ai tempi di Moro, quando ci si vuole sottrarre al mondo in cui si vive perché invivibile, pensando come è umano a un progetto forse irrealistico ma auspicabile. Ma forse è un’altra forma di utopia di cui si ha bisogno. Un’utopia in movimento, anche dell’impazienza, del coraggio di non abbandonarsi alla fatalità, alla facilità, agli slogan partitici, di vitalizzare la democrazia andando oltre al semplice modello della rappresentatività democratica.

Pubblicato il 

24.08.16
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