L'Italia sulla rotta della Grecia

Le lacrime della ministra del lavoro italiana, Elsa Fornero, quando fu costretta ad ammettere di aver fatto cassa sulle pensioni dei poveracci, avevano fatto il giro del mondo. In fondo ha un cuore, avevano pensato in molti, sperando in un secondo tempo della partita con un arbitraggio meno partigiano. Si sbagliavano: le ricette del governo Monti per uscire dalla crisi ed evitare che il paese finisca come la Grecia stanno precipitando la crisi sociale secondo il modello ellenico.

La trattativa aperta sul mercato del lavoro parte da un'ipotesi di riforma basata sulla cancellazione del welfare e delle protezioni sociali che nella crisi andrebbero semmai allargate a tutti. Per convincere le aziende a investire in Italia e rilanciare l'occupazione bisogna aumentare la flessibilità in uscita, cioè rendere più facili i licenziamenti. Ci risiamo con l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che si limita a introdurre un elemento di civiltà: se un giudice valuta ingiusto un licenziamento, condanna l'azienda alla riassunzione del dipendente penalizzato. Invece no: secondo Monti, Fornero, Passera, la Confindustria e la cupola finanziaria che decide le politiche e le sorti dei paesi europei, l'imprenditore maldestro dovrebbe potersela cavare con quattro soldi di multa versati al licenziato. L'articolo 18 è diventato una metafora generale, un punto di principio per i sindacati in difesa di un modello sociale sempre più zoppicante, mentre per i padroni assume un valore ideologico per sancire la fine di mezzo secolo di relazioni sindacali e legislazione democratica.
Martedì scorso la ministra del lavoro ha usato parole ricattatorie: o Cgil, Cisl e Uil dicono sì su tutta la proposta di riforma oppure non uscirà una lira a sostegno dei giovani e del precariato, per non parlare degli ammortizzatori sociali. E la riforma, ripete come un mantra Monti, si farà comunque, con o senza il consenso delle parti sociali.
Dietro la richiesta di abolizione dell'articolo 18 si cela una filosofia tesa a smantellare gli ammortizzatori sociali che hanno ridotto l'impatto devastante della crisi sull'occupazione. Ora, dopo aver imposto un allungamento dell'età lavorativa e un rinsecchimento della copertura pensionistica, si vuole cancellare la cassa integrazione per cessazione di attività e in deroga, finora utilizzate per avvicinare i dipendenti al prepensionamento. Al lavoro fino a 67 anni (che diventeranno 70, anche per chi è inchiodato alla catena di montaggio) e licenziamenti di massa per stato di crisi senza possibilità di sostegni fino all'età pensionabile. Già oggi la disoccupazione ha raggiunto livelli inediti, con intere regioni come la Sardegna e la Calabria a rischio esplosione con un terzo di disoccupati e il 50 per cento tra i giovani. Se passasse la controriforma del professori, la Grecia sarebbe l'esito più probabile. Perché la domanda, come lo spread, continua a crollare, le banche prendono soldi dall'Europa all'1 per cento di interesse e li prestano al 6 per cento alle imprese, mentre per i poveri cristi i prestiti sono impossibili, salvo rivolgersi all'usura e alla criminalità organizzata, l'unica industria fiorente.
Tutto questo, ci si dice, per sostenere i giovani. Ma i soldi per la fase due, per un reddito minimo, per una copertura attraverso il sussidio disoccupazione non si trovano. E sulla riduzione del numero di forme contrattuali – sono 47, il mercato del lavoro italiano è il più flessibile, meglio dire più precario – solo chiacchiere in libertà. Non solo per la Cgil, ma anche per i sindacati "complici", Cisl e Uil, la pillola che la Fornero vuol spingere in gola al movimento operaio è indigesta.
Restando in casa di Susanna Camusso – la segretaria dell'organizzazione più rappresentativa – intere categorie, camere del lavoro e la minoranza interna di sinistra chiedono di fermare la finta trattativa con il governo, un confronto a perdere, per passare all'azione. I metalmeccanici della Fiom hanno chiesto lo sciopero generale: il credito ai professori che hanno preso il posto dei partiti, dopo il liberatorio ritiro di Berlusconi, è finito. Questo governo sta proseguendo sulla strada liberista del Cavaliere e grazie al consenso "bulgaro" in un parlamento rimasto privo di opposizioni consistenti, Monti sta passando anche dove Berlusconi era stato fermato dalla protesta sociale e, in parte, politica. Oggi il Partito democratico è prigioniero.

Fiom: democrazia al lavoro

"La democrazia al lavoro". È questa la parola d'ordine dello sciopero generale di venerdì scorso indetto dai metalmeccanici della Cgil per riconquistare un contratto nazionale sequestrato dai padroni con Cisl e Uil. Uno sciopero contro il modello Marchionne che ha espulso la Fiom dalle fabbriche Fiat con l'accusa di non aver sottoscritto un contratto capestro che cancella quello di categoria e i diritti fondamentali. Il caso più clamoroso è Pomigliano, dove il conflitto era cominciato: su duemila assunti dopo la chiusura della fabbrica e la sua riapertura sotto altro nome, non ce n'è uno con la tessera Fiom. Contro questa arroganza la Fiat ha già perso alcune cause e altre ne perderà perché la Fiom si è rivolta ai tribunali in tutte le città in cui ci sono insediamenti Fiat. Marchionne già pratica la strada che il governo vuole imporre in tutti i luoghi di lavoro: tre delegati Fiom licenziati a Melfi nel corso di uno sciopero hanno vinto la loro terza causa, la Fiat è stata condannata per antisindacalità a riassumerli ma non lo fa, paga loro lo stipendio a condizione che se ne restino in casa.
Quello praticato da Marchionne è un modello che sta facendo scuola in tutta l'industria italiana e che il governo vuole far suo. Democrazia al lavoro è un ricordo ormai, un obiettivo da riconquistare con la lotta e con il ricorso alla magistratura, prima che la politica subalterna agli ideologi del libero mercato cambi le leggi, lo Statuto e la Costituzione. In molti però, tra i movimenti sociali, gli studenti, i precari, le associazioni legate al territorio, il movimento No Tav e quello in difesa dei beni comuni, hanno capito che quella della Fiom è una battaglia generale per la democrazia.
Per questa ragione, venerdì in piazza San Giovanni a Roma assieme alle tute blu c'era una presenza importante di un'Italia bastonata, colpita dalla crisi e dalle ricette liberiste, ma non pacificata. Un embrione di un futuro possibile, perché in Italia c'è ancora vita.

Pubblicato il

16.03.2012 03:30
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