Il reportage

Ogni città di questo mondo è un contenitore di esseri umani. Non importa quali dimensioni raggiunge, la latitudine o la longitudine, l’età, la ricchezza o il prestigio ottenuto nel tempo. Si tratta comunque di un microcosmo in cui nascita, vita e morte si alternano attribuendo alla città stessa un carattere peculiare, quello che in un individuo chiameremmo umore. E proprio come una creatura in carne e ossa, la città sopravvive grazie agli organi, al sistema nervoso, alle arterie che come fiumi ne rinnovano i tessuti, ne ripuliscono il ventre, ne alimentano la crescita. Ecco che per noi abitanti, una città può essere rifugio, sorgente di vita, qualcosa di simile a un’arca cui affidare ambizioni e prospettive. Una madre.


Vale anche in Asia o in Medio Oriente. Più precisamente in Iraq, nella Terra dei due fiumi, il Tigri e l’Eufrate, culla di antiche civiltà, dove la Ninive dei sovrani assiri oggi si chiama Mosul. Un luogo complesso, reso prospero dalla fertilità del suolo, dai commerci, dalle arti, poi per il terzo grande fiume, il petrolio. Con quasi 700.000 abitanti, Mosul è diventata la seconda città irachena dopo Bagh­dad. Centro di grande importanza strategica, situato in prossimità del confine turco, della Siria e dell’Iran, fu conquistato tre anni fa dall’Isis che vi ha fondato senza colpo ferire la propria roccaforte in Iraq, ereditando enormi arsenali usati poi per resistere all’avanzata siriana. È proprio l’antica capitale assira il luogo scelto da Abu Bakr al-Baghdadi per decretare la nascita del suo “Stato islamico”, il 29 giugno 2014. L’annuncio fu dato nella moschea al-Nuri, nella parte occidentale della città, tagliata in due dal corso del Tigri.


L’agonia della città
Oggi, mentre scriviamo, Mosul sta lentamente morendo, e con essa i quasi 400.000 civili intrappolati nel suo stomaco di cemento. Qui, dal 19 febbraio si combatte la fase finale della Battaglia di Mosul, denominata in lingua araba “Stiamo arrivando, Ninive”, destinata a liberare l’area dai miliziani dell’Isis. Dopo aver preso la parte orientale della città, l’esercito iracheno sostenuto dalla coalizione internazionale a guida statunitense, punta ora oltre la riva occidentale.
Gli scontri proseguono giorno dopo giorno nel labirinto dei quartieri residenziali, dove i vicoli troppo stretti impediscono il passaggio dei mezzi blindati. Nonostante il divario tra le forze in campo, le truppe di Baghdad avanzano lentamente, ingaggiando una feroce guerriglia urbana. Per Daesh questo significa imboscate, messe in atto sfruttando le gallerie scavate nel sottosuolo. Poi autobombe, attentatori suicidi, trappole esplosive, mortai e l’insidia dei cecchini appostati oltre al-Jamhuriya street che demarca la linea del fronte, ridotta a un mosaico di rottami, calcinacci e crateri. «Loro sparano dalle case dei civili. Li usano come scudi», spiega un tenente colonnello incontrato all’ingresso di una casa sfigurata dalle fiamme, a cinquanta metri dalle postazioni del nemico. Le sue parole svelano la tragedia vissuta dagli abitanti, esposti al fuoco di ambo le parti e costretti in condizioni al limite. Per loro la città non è più fonte di vita. Le funzioni che un tempo alimentavano l’area urbana sono al collasso, obbligando uomini, donne e bambini senz’acqua, cibo, elettricità e assistenza sanitaria.


Fuga a ogni costo
Mahudi Shahad è da poco «passato» attraverso un varco sul fronte di al-Jamhuriya. Lui e i suoi familiari hanno deciso di tentare la fuga, puntando la vita alla roulette dei cecchini addestrati a colpire chiunque tenti di lasciare l’agonia di Mosul. «Dentro è terribile, non c’è acqua, né cibo, non c’è nulla eccetto la farina per fare il pane», spiega l’uomo, accovacciato al suolo in attesa di essere identificato. L’antiterrorismo iracheno cerca tra i maschi i disertori di Daesh, in fuga dal fronte. Mahudi e i suoi sono stati fortunati. Altri invece hanno perso la vita. Secondo le Nazioni Unite sono 300 i civili caduti dall’inizio dell’offensiva, 200 dei quali uccisi il 17 marzo a causa di un bombardamento aereo della coalizione guidata dagli Stati Uniti, nel quartiere al-Jadida. Responsabilità confermata dal Comando centrale americano a seguito dell’avvio di un’inchiesta formale.
Nonostante il massacro di al-Jadida, il tema dei civili continua a risuonare nella retorica ufficiale. «Potremmo prendere la città in poco tempo, ma la presenza di tutte quelle persone impone una certa cautela», continua l’ufficiale in prima linea. Attorno a lui la battaglia prosegue. Nella finestra di cielo schiacciata tra le cornici dei palazzoni sfilano elicotteri da guerra. Virano all’improvviso scaricando raffiche di mitra dalla parte di Daesh, dove i colpi dell’artiglieria irachena cadono a ritmo regolare. La voce della città è ora il coro delle esplosioni, seguite da un silenzio irreale. Oltre la linea dei tetti si levano colonne di fumo bianco e nero. L’aria è pregna dell’odore dei rifiuti, degli escrementi e degli incendi. Un soldato non ancora ventenne appoggiato sul filo dell’edificio, quasi in vista sulle postazioni dei miliziani, allunga il dito verso dei teli di stoffa sospesi a mezz’aria, tra un palazzone e l’altro. «Li mettiamo per schermare la vista ai cecchini, ma è meglio se passate correndo», ci avvisa prima di imbracciare il mitragliatore.


Troppo, anche per gli adulti
La vista di Mosul è desolante. Ogni spazio porta i segni della guerra, anche all’estremità meridionale liberata a fine febbraio. Qui, al sicuro oltre le pareti di due palazzi residenziali, un gruppetto di bambini gioca al salto della corda. Per loro le restrizioni imposte dal regime di al-Baghdadi sono finite. A lato c’è l’ultimo checkpoint, e oltre la spianata di macerie che immette a Mosul ovest. Mentre attendiamo l’autorizzazione a procedere, davanti ai blindati dell’esercito iracheno notiamo una bottega di mattoni, rete e lamiera gestita da tre ragazzini. Nonostante la giovane età – il più vecchio non arriva a dieci anni – sanno riconoscere e trattare con i clienti. Distinguono facilmente i soldati di rientro dalla prima linea. Hanno gli occhi di chi ha già vissuto molto, di chi ha visto troppo anche per un adulto. Sono nati e cresciuti in un Paese sfigurato dalla guerra, dalla violenza, infine sopraffatto dalla follia del Califfato. Questi tre ragazzini scorgono prima degli altri i profughi fuggiti nottetempo attraverso i vicoli di Mosul ovest, così come un giornalista preoccupato dal ripetersi delle esplosioni, aggrappato alla sicurezza di un giubbotto antiproiettile, in attesa della sua prima Mosul.


Il futuro dei bambini
«Quando ci insegnavano le addizioni, anziché usare le mele c’erano i fucili, o i cadaveri. Quelli un po' più grandi dovevano anche imparare a usare le armi», ricorda Abdoul Azim, 12 anni appena, al campo di Sendinan, ormai lontano dalla metastasi di Mosul. Sendinan è uno dei campi profughi allestiti per arginare l’emergenza umanitaria in corso. Su di un’area di 50 chilometri quadrati sorgono quattro enormi campi simili, ciascuno dei quali ospita tra i 20 e i 30.000 individui, compresi molti minorenni. È il caso di al-Kazer1, 33.000 persone assiepate in una distesa di tende marchiate Unhcr. Nella Shuhad Al-Mosul Madrasa, la “Scuola dei martiri di Mosul”, 1.500 bambini vanno a lezione in due turni, al mattino e alla sera. Il preside Idham Hassan Muhammad, anche lui profugo dal 2014, ci illustra il funzionamento della struttura, da cui dipende l’educazione dei ragazzi in età scolare e il loro recupero dai traumi provocati dal metodo al-Baghdadi. «Ci sono quattro materie: inglese, arabo, matematica e religione. In tutto 31 insegnanti», spiega.


Dopo l’Isis i problemi veri
Tutt’altra storia al campo di al-Alil, poco a sud di Mosul, dove un flusso continuo di autobus scarica tra gli 8.000 e i 12.000 profughi al giorno. La struttura ha ormai superato la portata massima (40.000 persone) e i nuovi arrivati sono respinti verso altri campi, molti in costruzione e non ancora pronti ad accogliere una tale mole di persone. Allargando il quadro si può solo intuire il destino di Mosul e dell’Iraq. L’Isis cadrà, questo è certo. Che avvenga tra un giorno o tra due mesi poco importa, ci saranno in ogni caso centinaia di migliaia di persone da aiutare. Il ritorno alla vita in questa città a brandelli è dunque impensabile. Oltre all’esodo, la fine della Battaglia di Mosul solleva pesanti quesiti sul futuro delle alleanze di comodo, tenute assieme dal comune nemico, a partire da quella tra l’Iran e gli Stati Uniti di Trump, cui si aggiunge un caleidoscopio di eserciti più o meno influenti – incluso quello turco –, tutti interessati a rivendicare la propria area di influenza. Guerra civile? Balcanizzazione dell’Iraq? Più che dalle interpretazioni degli analisti, una risposta credibile sembra giungere da un anziano profugo cristiano di Erbil: «I problemi veri in Iraq incominceranno con la fine di Daesh. Tornare al mio villaggio? Non ci penso nemmeno».

Pubblicato il 

12.04.17
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