Italia, tanto cuore ma poco cervello

Riflessioni su prevenzione e legalità dopo il tragico terremoto

Accumoli, Arquata, Amatrice, Norcia… Un grumo di Appennini dove Lazio, Marche, Umbria e Abruzzi si fondono. È qui tra le montagne che il sisma ha colpito di nuovo, come tante volte in passato. L’Aquila è a un tiro di schioppo e in alcune sue frazioni nel sisma di fine agosto si sono aperte nuove crepe, addirittura in case ristrutturate dopo il dramma del 2009. E addirittura ad Accumoli non c’era il piano antisismico. E addirittura ad Amatrice le strutture più devastate – scuola e Hôtel Roma – erano destinate a rifugi per la popolazione in caso di sisma.

 

Perché a Norcia le case hanno retto e ad Amatrice sono venute giù uccidendo la maggioranza dei 296 caduti? Le risposte non sono difficili, né opinabili. Eppure il sindaco dice che per la scuola di Amatrice era stato fatto il necessario per metterla in sicurezza, poi si scopre che non era a norma, era solo stato fatto qualche rafforzamento. In tanti casi i soldi per la messa in sicurezza non erano stati spesi.


L’Italia ha un gran cuore, nei disastri “naturali” dà il meglio di sé, che si tratti di scavare tra le macerie e inviare aiuti e denaro, o di salvare e accogliere i migranti sbarcati sulle nostre spiagge. Porte aperte a chi bussa, ponti e non muri. Il fatto è che abbiamo più cuore che cervello: la prevenzione non riesce a entrare nella mentalità della gente, dell’amministrazione, della politica. Così come la legalità. Onore alla Protezione civile libera da Bertolaso, vergogna per l’intreccio di cinica corruzione tra economia e politica che fa brindare a ogni terremoto per il business che attiva. Ci sono terremoti gestiti bene, dal Friuli all’Emilia all’Umbria, e gestioni più nocive del terremoto stesso, come nel Belice (da cinquant’anni paghiamo le tasse per la sua ricostruzione), in Irpinia e all’Aquila.


Questa volta il commissario straordinario, Vasco Errani, ex presidente dell’Emilia, lascia ben sperare anche se la sua nomina da parte di Renzi fa pensare a una furbizia: si neutralizza un quadro che svolgeva un ruolo di mediazione nel Pd in vista del referendum.
Milioni di tonnellate di macerie da smaltire, e peggio ancora amianto: se ne calcolano 17,5 tonnellate per kmq in un’area di 962 kmq. Amianto in fabbriche, acquedotti, scarichi, camini, linoleum dallo sbriciolamento dei materiali da costruzione e dallo sfibramento dovuto alle vibrazioni del sisma.


Finora tutto sembra procedere bene e rapidamente ma il tempo è tiranno perché quassù a 1.000 metri l’estate è finita e si vive già l’autunno in tenda. Un autunno che, con la prima neve, diventerà il Generale Inverno. Dalle tende i terremotati passeranno in fretta negli alberghi della costa adriatica o da amici e parenti con un piccolo aiuto in danaro, poi nei prefabbricati. Ma questa volta, giurano tutti, i paesi saranno ricostruiti dov’erano, niente new town berlusconiane. E si tornerà a organizzare la sagra dell’amatriciana, alla faccia dei vignettisti di Charie Hebdo che in questa occasione non hanno dato il meglio di sé.

 

Il popolo multietnico della solidarietà e il partito dell’odio

 

L’ultimo corpo senza vita, il duecentonovantaseiesimo, trovato sotto le macerie di Amatrice apparteneva a Sayed. Era un ragazzo diventato amico di tutti, un rifugiato afgano che viveva, nella casa che gli è crollata addosso, assieme a Sultan, Whaid, Adil: loro per fortuna si sono salvati, fuggiti prima del crollo oppure proiettati fuori casa dalla violenza della scossa. Sayed doveva partire per Torino dove aveva trovato lavoro come pizzaiolo ma aveva rinviato la partenza di qualche giorno per partecipare alla festa degli spaghetti all’amatriciana. Di un albanese e 11 romeni sono stati recuperati i corpi dai soccorritori quando per loro, ormai, era troppo tardi.


Il terremoto non fa distinzione tra indigeni e stranieri, colpisce dove e chi capita anche se a uccidere, come ha detto il vescovo di Rieti Domenico Pompili ai funerali ad Amatrice, non è il terremoto ma sono le opere dell’uomo. Le opere fatte, quelle non fatte, quelle malfatte. Immigrati sotto le macerie e immigrati a scavare tra le macerie per salvare qualche vita.


Abdullai del Benin con altri 17 migranti è andato a dare una mano ad Arquata del Tronto, ad Amatrice a scavare è un gruppo di richiedenti asilo ospitati nel paese colpito come Sayed. I profughi di Monteprandone sono partiti per Amandola per ripulire un campo destinato a ospitare i soccorsi. I migranti in attesa di asilo in Val Candina, Avellino, si sono aggregati a una colonna della Protezione civile in partenza per l’Appennino marchigiano. 75 migranti di Gioiosa Ionica, in Calabria, hanno deciso di devolvere in favore degli sfollati i pocket money, la paghetta data loro nei centri di accoglienza. I cinesi che da tempo vivono a Prato e Firenze e lavorano (spesso come schiavi) nel tessile hanno promosso una raccolta di fondi per le popolazioni colpite dal sisma.


Volontari provenienti da tutt’Italia insieme con la Protezione civile e ai Vigili del fuoco rappresentano la parte sana del paese, scavano e non chiedono a chi da giorni sta sotto le macerie il luogo di nascita. Anche il labrador Leo, quello accarezzato da Merkel e Renzi, non ha chiesto la nazionalità alla bambina Giorgia prima di consentirne il salvataggio.


Ma c’è un’altra Italia, purtroppo, ben peggiore del popolo multietnico della solidarietà e anche del cane Leo ma per fortuna più piccola. I professionisti dell’odio xenofobo non hanno perso un solo giorno per scatenarsi contro “lo straniero”. Libero, giornale maestro d’odio, ha lanciato una campagna subito raccolta dal leghista Salvini per cacciare i richiedenti asilo dagli alberghi della costa adriatica sostituendoli con i terremotati; Bertolaso, l’anima nera del terremoto dell’Aquila con cui per fortuna i nuovi sfollati non avranno a che fare, spera che ci siano abbastanza tende per i terremotati e non siano state tutte impiegate per i migranti; il presidente della Lombardia Maroni vuole che nel campo base dell’Expo destinato ai migranti siano invece collocati i terremotati. I quali non sperano altro che abbandonare terra, averi e lavoro per andare sotto una tenda alla periferia di Milano. Ma finché avremo un po’ di umanità eviteremo di augurare ai professionisti dell’odio quel che è capitato ai terremotati e quel che capita, ogni giorno, a chi fugge da guerre dittature e fame alla ricerca di un pezzetto di futuro.


I paesi sperduti dell’Appennino, spina dorsale dell’Italia, si stanno spopolando. In molti casi a tenerli in vita sono i migranti, come in alcune realtà della Calabria rianimate dai kurdi, o negli stessi Sibillini dove da anni a occuparsi di pascolo, mungitura e tosatura delle pecore sono pastori romeni e macedoni: nelle forme di pecorino c’è la mano di lavoratori stranieri. Sarebbe logico legare la gestione dell’immigrazione alla necessità di ripopolamento e cura dei nostri Appennini. Sarebbe anche un modo per disarmare i Salvini, i Maroni, i Bertolaso.
   



Pubblicato il

08.09.2016 10:18
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