Quanti capi d’abbigliamento possiedi? La domanda non è peregrina, in questi tempi bizzarri che ci sono toccati in sorte. Le nostre case sono piene di cose, al punto che il decluttering, liberarsi di quanto non serva, è diventato moda e ci sono consulenti per aiutarci a prender congedo da oggetti abbandonati in armadi e cantine. Talvolta mi chiedo come giudicherebbe una donna vissuta cent’anni fa questa inutile abbondanza che ha preso il controllo delle nostre vite. Una donna vissuta in epoche in cui se eri benestante avevi tre paia di scarpe, se eri povero neanche un paio. Oggi non ci vergogniamo a possederne decine. E i mercati dell’usato, una volta eccezione da collezionisti, sono diventati risorsa, perché è possibile vestirsi da capo a piedi e arredare un appartamento con quello che altre persone hanno scartato. Ditte e Ong raccolgono vestiario da destinare a chi non ha denari, con il tipico corollario di domande senza risposta sull’efficacia del gesto. Nonostante ci sembri normale, a rifletterci il fatto che siamo in grado di regalare oggetti che non ci servano è un indicatore di ricchezza. Lo shopping è diventato un hobby, i centri commerciali un parco giochi, convitato di pietra il modello economico dietro l’inutile abbondanza. Come può un capo costare quanto un caffè? Grazie allo sfruttamento del lavoro altrui, certo. E infatti un abito cosiddetto “fair”, prodotto in condizioni accettabili, costa cifre cui non siamo abituati. Il tema negli ultimi anni si è fatto popolare, tante le ricerche e quindi le cifre inquietanti. Dicono gli studi che a testa compriamo in media 20 chili di vestiti all’anno – anche se tendiamo ad indossare sempre gli stessi.

 

L’industria della moda sarebbe responsabile del 20 per cento dello spreco globale di acqua, con un’impronta ecologica pari al 10 per cento del totale ovvero più di traffico marittimo e voli internazionali insieme. Peggio mi sento con la plastica: poliestere, nylon e affini rilasciano microfibre inquinanti ad ogni lavaggio. Le Nazioni Unite dicono sono pari a 50 miliardi di bottiglie di plastica all’anno. Finiscono nei fiumi e il resto della storia lo conosciamo. Numeri che mi fanno sentire un po’ sciocca con il mio tic di non acquistare plastica, come tentare di svuotare l’oceano con un ditale da cucito. A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, ci sono progetti interessanti. Sorniona, l’industria della moda lancia iniziative ad hoc, come sempre impossibile distinguere l’impegno dalle pubbliche relazioni. Ci ha provato il Wwf, concludendo che siamo ai minimi dello sforzo. Creativi inventano tessuti nuovi a partire dagli scarti, e vennero le giacche fatte con le bottiglie di Pet e fibre di lusso a base di buccia d’arancia. Infine, una fanciulla svizzera-tedesca è diventata celebre con il progetto “Un solo vestito”. Sistematica, la ragazza: dall’amica stilista si è fatta cucire un tubino nero, indi ha svuotato l’armadio per selezionare cento accessori, calzini compresi, combinabili con il suo unico abito. L’ha indossato per un anno intero.

 

Per saperne di più:

tinyurl.com/yy74sho8 Rapporto Fondazione Macarthur
tinyurl.com/y4m2hpjw Wwf  Cambiare la moda
tinyurl.com/y4bs8m4c Fashion Revolution
zippora.ch/one Un solo vestito

Pubblicato il 

26.06.19

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