La mano invisibile

“Quanto vale un’ora di lavoro in Ticino? Poco, troppo poco”, titolava negli scorsi giorni un giornale riassumendo uno studio da poco apparso dell’Osservatorio economico  cantonale. Imputata l’immancabile produttività che nel Ticino è sempre al di sotto della media nazionale.


Produttività è un rovello che torna con insistenza, anche a livello nazionale (ne rileva spesso l’insufficienza anche la Seco, la Segreteria di stato all’economia), come questione di vita o di morte o persino come fattore colpevolizzante. Per il Ticino è tema ricorrente, con l’ormai eterna litania dei punti deboli della sua economia: sottoformazione, rami economici a bassa produttività (agricoltura, costruzioni, alberghi e ristoranti), carenti investimenti e scarsa tecnologia, ricorso a manodopera a buon mercato.


La produttività è intesa come un dato fisico: una quantità di oggetti fabbricati o di servizi (banche, assicurazioni ecc.) resi per unità di tempo. Trenta persone servite allo sportello postale invece di dieci in un’ora, ecco che aumenta la produttività oraria. Si stabilisce una correlazione tra quattro variabili: crescita della produzione di beni e servizi; produzione in un tempo o produttività oraria; numero di occupati; durata individuale del lavoro per produrre un bene o un servizio. Se agisco sulle due ultime variabili, sia diminuendo gli occupati sia pretendendo un maggiore apporto di lavoro per unità, le altre due variabili aumenteranno in quantità (più produzione e più lavoro per ora lavorata). A farne le spese sembra quasi sempre il lavoratore: produttivisticamente licenziato, tecnologicamente rimpiazzato, remunerativamente ricattato, lavorativamente declassato.


Non è però vero che la produttività sia il vero fattore determinante per l’economia, l’impresa, la sua sopravvivenza, il successo. Ciò che conta, in realtà, è la contropartita monetaria ottenuta per tempo di lavoro. Con altre parole, conta il valore aggiunto. Altra mitica espressione che corre spesso in Ticino: promuovere imprese dall’alto valore aggiunto. Anche se, con la politica degli sgravi fiscali, si è piuttosto dato accesso a ditte con scarso valore aggiunto, sfruttamento di manodopera e grande consumo di territorio.
Nel valore aggiunto dovrebbero però figurare anche vastissimi giacimenti che si ignorano perché appunto in combutta con l’economia produttivistica dominante. Sono i guadagni che si dovrebbero ottenere in qualità, in servizi e benessere della persona, in salvaguardia della natura, del territorio, dell’ambiente, in prevenzione delle malattie, in oculato uso delle risorse e quindi in particolar modo in rivalutazione del lavoro. Valori aggiunti che non sono registrati dagli indicatori ufficiali attuali dei cosiddetti guadagni di produttività. Qui sta il paradosso. Esemplifichiamo. Se sostituiamo la produzione “produttivistica” e inquinante (pesticidi ecc.) di un bene alimentare con una produzione bio, senza aumentarne la quantità, occorrerà forse il doppio di lavoro per una tonnellata di prodotto bio. Le misure ufficiali registreranno allora un calo pauroso della produttività (divisa per due), un raddoppio del volume di lavoro e una crescita zero. Se una cura ospedaliera è sottoposta a rigidi monitoraggi produttivistici (tot minuti per quel servizio) si diminuiranno il personale e quindi i costi, ma qualità e sicurezza della cura saranno sacrificate assieme alla vita del paziente (com’è capitato). Insomma, un’ora di lavoro non vale solo per quanto vi si produce.

Pubblicato il 

03.05.18
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