Dignità & Lavoro

È iniziato il conteggio dei voti in Alabama per vedere se gli operai di Amazon dello stabilimento di Bessemer potranno fondare un sindacato. Come vuole la legge americana, se la maggioranza dei votanti – sui circa 6.000 dipendenti – voterà a favore, quello in Alabama sarà il primo stabilimento di Amazon negli Stati Uniti ad avere un sindacato che difenda i dipendenti. La votazione si è svolta in un clima molto teso dove il gigante dell’e-commerce non ha lesinato ad utilizzare diverse pratiche scorrette per tentare di convincere i dipendenti a votare no al sindacato. Se passasse il Sì sarebbe una delle più grandi spinte sindacali nella storia recente degli Stati Uniti: un segnale forte lanciato alla creatura di Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo che con la pandemia ha visto moltiplicarsi il proprio patrimonio. Di questo a altro ne abbiamo parlato con Christy Hoffman, segretaria generale di Uni Gobal Union (Ugi), la federazione internazionale con sede in Svizzera che unisce i sindacati del settore dei servizi e rappresenta oltre 20 milioni di lavoratrici e lavoratori. Ecco l’intervista.

 

Signora Ho­ffman, tra i grandi vincitori della situazione di crisi in cui ci troviamo vi è Amazon, i cui risultati sono esplosi nel 2020. A quale prezzo?

 

Il ritmo di lavoro in un deposito Amazon è sempre stato brutale e spietato, con incidenti sul posto di lavoro che superano di gran lunga quelli di altre aziende simili. Ma dopo che, a seguito del Covid-19, i clienti si sono rivolti ancor di più all’e-commerce, le condizioni si sono ulteriormente deteriorate. Man mano che il volume degli ordini esplodeva, il distacco sociale e l’igiene diventavano incompatibili con gli obiettivi di produzione. Le azioni sindacali hanno portato a cambiamenti nel comportamento di Amazon in alcuni paesi europei, mentre in altri, come gli Stati Uniti, i lavoratori che hanno tentato di migliorare la sicurezza sono stati licenziati. Insomma, il più grande profittatore della pandemia ha licenziato i lavoratori o messo a tacere i critici piuttosto che risolvere i problemi e negoziare con le parti sociali. Una vera vergogna!

 

Cosa è successo esattamente negli Stati Uniti dove è attualmente in corso un’importante battaglia per la libertà sindacale?

 

Negli Usa i criteri per la sindacalizzazione sono molto difficili. Se vuoi avere un sindacato per le negoziazioni collettive, devi avere la prova che la maggioranza degli impiegati lo vuole. Quindi si deve organizzare un’elezione su domanda di almeno il 30% del personale. In Alabama, i lavoratori di Amazon sono riusciti, nonostante tutti gli ostacoli posti dalla multinazionale, a organizzare un’elezione. La metà dei circa 6.000 impiegati ne ha infatti fatto richiesta. In questo periodo di votazione (che si conclude il 29 marzo, ndr), Amazon ha portato avanti un’agguerrita campagna antisindacale: hanno affisso manifesti ovunque, hanno mandato sms quotidiani per votare no al sindacato e hanno ingaggiato un’azienda specializzata nel “mantenere un luogo di lavoro libero dai sindacati”, una vera specialità negli States.

 

Come si spiega questo anti- sindacalismo portato all’estremo?

 

Abbiamo visto che anche in Europa le relazioni con i sindacati sono pessime. Penso che per Amazon sia una questione di principio: vogliono semplicemente mantenere il controllo assoluto. È quindi incoraggiante vedere, nonostante queste pratiche sporche, come i lavoratori continuino a lottare per i loro diritti. Sì, tutti sono consapevoli che quanto sta avvenendo in Alabama è molto importante. È una questione che va al di là di questa votazione per il sindacato. Vediamo la digitalizzazione aumentare drammaticamente le fortune di persone come Jeff Bezos, mentre non c’è alcun aumento dei salari reali per i lavoratori in un contesto in cui la pandemia sta aumentando ulteriormente le disuguaglianze. L’ascesa di Amazon è una chiamata all’azione per le forze progressiste che credono ancora nella politica del bene comune e sono pronte a lottare per l’affermazione della dignità del lavoro. E i sindacati devono essere in prima linea.

 

Recentemente, c’è stato un tentativo di sindacalizzazione anche ad Alphabet, la casa madre di Google. Cosa è successo?

 

Google è un luogo dove molti lavoratori sono venuti perché pensavano di poter rendere il mondo un posto migliore. Ma negli ultimi anni sono diventati sempre più disillusi da alcune pratiche del management e dal cambiamento della cultura sul lavoro. Hanno iniziato a organizzarsi nel 2018, con uno sciopero globale di un’ora in seguito a casi di molestie, che ha visto la partecipazione di 20.000 persone. Hanno chiesto un sistema diverso per trattare i casi di molestie sessuali, un trattamento migliore per i lavoratori interinali e a contratto (ad esempio i lavoratori Adecco e gli addetti alle pulizie e alla sicurezza) e un posto per i dipendenti nel consiglio di amministrazione. Negli ultimi due anni, hanno sollevato obiezioni sui contratti militari di Google e sulla collaborazione con la polizia. Alcuni dei leader coinvolti in queste iniziative sono stati licenziati, e di recente anche un importante ricercatore è stato licenziato per aver espresso preoccupazioni sull’intelligenza artificiale nelle sue ricerche.

 

È così che è nato un sindacato vero e proprio?

 

All’inizio di gennaio 2021, centinaia di lavoratori si sono uniti per formare un sindacato chiamato Alpha Workers Union. Si è voluto anche unire tutti i lavoratori esterni che costituiscono quasi la metà delle persone che lavorano per Google. Si tratta di una crescente tendenza globale che vede i lavoratori di Google e delle aziende tecnologiche organizzarsi in sindacati. I lavoratori vogliono un cambiamento strutturale in queste aziende e un riequilibrio del potere per renderle più democratiche.

 

Quale è stato il ruolo di Ugu?

 

Alpha Global è una nuova alleanza sindacale globale, che mira a costruire una società più etica e responsabile, che è stata creata in coordinamento con Ugu. L’alleanza comprende i sindacati di nove paesi, compresa la Svizzera.

 

Di fronte a questi giganti, è importante essere attivi a livello globale.

 

L’azione internazionale è particolarmente importante ora, dato che l’azienda ha intensificato le ritorsioni contro le voci critiche e ha respinto gli sforzi di organizzazione sindacale. Inoltre, un’alleanza globale è importante perché molto di questo lavoro è fatto in team globali, dove le decisioni sono prese da un management globale, quindi gli sforzi per cambiare l’azienda, per renderla etica, devono essere fatti anche a livello internazionale.

 

Un altro aspetto della precarizzazione legata alla digitalizzazione concerne le piattaforme come Uber. Di recente ci sono state importanti decisioni a livello di tribunali, come quella che, in Inghilterra, stabilisce lo statuto di datore di lavoro di Uber. Quanto è importante questa decisione?

 

La decisione è molto importante, ma non è l’unica. Ci sono altre decisioni in Europa, e anche in Svizzera, che dimostrano che Uber deve garantire lo statuto di dipendente. Ma, in generale, la situazione non è ancora chiara. Occorre aspettarsi altre battaglie, perché per Uber è una questione di sopravvivenza. Quello che è successo in California lo dimostra.

 

Che cosa è successo?

 

Un tribunale ha stabilito che Uber è un datore di lavoro. Dopo che il parlamento ha deciso di mettere questo concetto in legge, Uber ha lanciato un referendum e ha speso 200 milioni di dollari per una campagna che alla fine l’ha vista vincere. Hanno speso questi soldi perché non possono sopravvivere senza questo statuto. È una questione di sopravvivenza: se vengono trattati come gli altri datori di lavoro, per loro è la fine. E ora stanno per spendere un sacco di soldi perché Bruxelles sta progettando il futuro delle piattaforme.

 

La chiamano sharing economy, economia della condivisione...

 

Sembra qualcosa di cool, ma è semplicemente un altro modo di sfruttamento..

 

Pubblicato il 

30.03.21
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