Il caso Swissair ha fatto emergere un mutato atteggiamento, almeno da parte dei cittadini, nei confronti dello Stato. Un fatto che si nota è la maggiore volontà di far intervenire lo Stato in economia. La stessa cosa si può dire degli Usa dopo l’attentato dell’11 settembre. Ne abbiamo parlato con Christian Marazzi, economista e docente. Secondo lei, prof. Marazzi, è una tendenza a lungo termine? Secondo me bisogna distinguere tra quello che è si può definire il nuovo keynesismo e una riabilitazione del pubblico che si sta verificando negli Usa, da quello che sta succedendo in Europa. Paradossalmente dopo quest’estate in cui si prospettava un allentamento della spesa pubblica e del patto di stabilità da parte della Germania, dopo l’attacco terroristico in Europa si sta assistendo a un indietreggiamento, o comunque ad una certa cautela. In questo preciso frangente, più interventista è lo Stato americano e ciò è dovuto chiaramente a quello che è successo l’11 settembre e alla guerra in corso. I grandi rilanci dell’intervento pubblico, fra l’altro, sono sempre stati fatti da presidenti repubblicani, a partire da Nixon. L’era del democratico Clinton, infatti, è stata all’insegna del «più mercato». Questo attivismo keynesiano dello Stato americano è, secondo me, destinato a durare nel tempo per ragioni belliche e a causa dell’inefficacia della politica monetaria di Greenspan nel rilanciare l’economia dimostratasi prima dell’11 di settembre. È l’eccessiva finanziarizzazione dell’economia americana, e la sua crisi, che ha portato a questa situazione. In Europa non avviene, si è più cauti a rilanciare l’economia con stimoli fiscali (di riduzione delle tasse e, anche, di aumento della spesa sociale). Si ha ancora molta paura dell’aumento dei deficit di bilancio e delle presunte conseguenze ad esso legate: aumento dei tassi d’interesse e dell’inflazione. La Commissione europea sulla concorrenza ha richiamato la Svizzera per l’aiuto di Stato alla Swissair. Perché? Questo conferma quanto detto prima. Nell’economia europea il ruolo delle banche nel finanziamento dell’economia è ancora importante. Il ricorso ai mercati finanziari è di gran lunga minore rispetto agli Usa. L’aiuto della Confederazione alla Swissair è stato visto dall’Unione europea come una violazione delle regole della concorrenza. In ogni caso, la divaricazione tra Usa e Europa in materia di intervento pubblico può essere pericolosa. Come mai? Storicamente il keynesimo americano, cioè il sostegno pubblico dell’economia con deficit di bilancio, è sempre stato pagato dagli europei e dal Giappone con importanti sottoscrizioni di titoli di debito pubblico. È grazie all’apporto esterno di capitali (leggi: risparmio della collettività) che gli Stati uniti si possono permettere di ridurre le tasse senza cura degli effetti sui conti dello Stato. Se ciò dovesse ripetersi oggi – già a partire dal 2002 si prospetta negli Usa un passaggio da eccedenze fiscali, al deficit pubblico – in un momento in cui in Europa abbiamo assoluto bisogno di trattenere i capitali, anche un timido rilancio della spesa pubblica a sostegno dell’economia e, soprattutto, di coloro maggiormente penalizzati dalla crisi, sarebbe molto difficile, se non del tutto improbabile. L’unica speranza, se così si può dire, è che gli investitori europei temano una svalutazione del dollaro, e quindi riducano il loro entusiasmo per i titoli (di Stato) statunitensi. Anche a livello locale si ha una ribalta dello Stato. Sono un esempio le privatizzazioni bocciate in Ticino e in altri cantoni. Cosa ne pensa? Si conferma un cambiamento di mentalità. Il mutamento è maturato nel tempo, non improvvisamente. I super stipendi dei managers e il loro scarso rendimento, per non parlare della loro arroganza, ad esempio, hanno sicuramente contribuito ad alimentare la diffidenza dei cittadini nei confronti del ceto economico liberista emerso in questi ultimi 10 anni. Anche il movimento «no global» ha fatto la sua parte agitando temi critici sugli effetti della globalizzazione. La globalizzazione è stata percepita e interpretata in modi molto diversi: chi in termini di fusioni e licenziamenti, chi in termini di danni ambientali, o di liberismo violento. Il messaggio di «un altro mondo possibile», alla fine, è passato. Credo proprio che siamo alla fine del «lassez faire». Questo non significa necessariamente ritornare a uno stato sociale vecchia maniera, né a nazionalizzazioni di imprese frettolosamente privatizzate negli ultimi anni. È comunque interessante osservare che Tony Blair, di fronte al fallimento della Railtrack, il sistema ferroviario britannico che, privatizzato, ha dimostrato le sue debolezze micidiali con tragici disastri, debba oggi essere ri-nazionalizzato. Ma ci sono ragioni strutturali che rendono complesso un ritorno allo Stato sociale di un tempo: il nuovo modo di produzione è di tipo «disinflattivo» perché con la flessibilizzazione del lavoro, l'outsourcing e le tecnologie comunicative si tende a produrre di più a costi sempre più bassi. Con tassi d’interesse decrescenti (e un euro rivalutato rispetto al dollaro) non è più possibile attirare capitali per finanziare i deficit pubblici. Oltretutto, negli anni del liberismo più sfrenato è tutto un ceto politico storicamente legato allo Stato sociale che è stato distrutto. Siamo allora alle soglie di un nuovo protezionismo? È un’ipotesi insita in quello che potremo definire il processo di «deglobalizzazione» o rigerarchizzazione dei rapporti internazionali diretto dagli Stati uniti. Il «con noi, o contro di noi» americano è emblematico della riorganizzazione del nuovo ordine mondiale.

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12.10.01

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