I reduci sono i personaggi più scomodi che le guerre si lasciano dietro. Anche nel campo dei vincitori. Figurarsi poi in quello degli sconfitti. È un'esperienza comune a tutte le guerre: si vogliono eroi, non reduci. Lo aveva perfettamente capito Wolfgang Borchert, l'autore di "Draussen vor der Tür" ("Fuori dalla porta"), testo teatrale rappresentato per la prima volta un giorno dopo la sua morte, il 21 novembre 1947, e assurto a specchio della cattiva coscienza dei tedeschi verso i loro soldati e nel contempo a manifesto (assieme al breve testo "Dann gibt es nur eins!") del movimento pacifista. Borchert, consumato dalla malattia che gli anni al fronte prima e in carcere poi avevano alimentato, scrisse "Draussen vor der Tür" in pochissimi giorni, nell'autunno del '46, spinto dall'urgenza di dire e dalla consapevolezza che il suo tempo si stava esaurendo. E produsse uno dei testi più rappresentati della drammaturgia tedesca contemporanea.
A Borchert sembra rifarsi l'autore inglese Simon Stephens, che in "Motortown" racconta il ritorno a casa di un soldato mandato a combattere in Iraq. Allo Schauspielhaus di Zurigo il testo di Stephens è stato messo in scena dal regista di origine irachena Samir, noto soprattutto per il suo lavoro di regista cinematografico e di produttore, ma che già si era cimentato a teatro col tema della guerra (alla Gessneralle sempre di Zurigo mise in scena nel 2000 "Norman Plays Golf", un suo spettacolo multimediale, satirico e dissacratorio, sulla prima guerra del Golfo, quella del '91). Fra Borchert e Stephens le analogie sono molte. In entrambi i casi protagonista è un reduce rifiutato in quanto tale da tutti. Analoga è poi la costruzione drammaturgica del testo, che procede per brevi scene nelle quali il protagonista incontra di volta in volta personaggi nuovi. Infine anche Stephens come Borchert ha scritto "Motortown" in pochissimo tempo. Quattro giorni esattamente. Il primo, il 6 giugno 2005, fu quello dell'aggiudicazione dei giochi olimpici a Londra. Il secondo quello degli attentati alla metropolitana londinese. «È una pièce sull'Inghilterra in guerra, sulle conseguenze negative della guerra contro il terrorismo», annota Stephens.
La trama di "Motortown" è semplice. Rientrato da Bassora, il soldato Danny (splendidamente interpretato da un atletico Oliver Masucci) cerca di riannodare i fili della sua vita e, nel contempo, di chiudere il capitolo della guerra tentando di elaborare i suoi traumi. Ma è un'impresa votata al fallimento. Il fratello è troppo preso con le sue paranoie; l'amico d'infanzia non si fa problemi a vendergli una pistola senza starlo ad ascoltare; la sua compagna chiude definitivamente con lui spaventata per le lettere che riceveva dall'Iraq; una coppia molto in, che ha partecipato alla grande manifestazione di Londra contro la guerra, si interessa a lui soltanto per farci un'orgia. Danny per finire fa l'unica cosa che sa ancora fare e che sembra confermargli di essere qualcuno: uccide un'ignara ragazza dopo averla pesantemente umiliata. E prima che la pièce termini ha ancora la forza per interessarsi ai problemi del fratello, lui che di ascolto non ne ha ricevuto da nessuno.
Samir ha montato "Motortown" su un palco nudo, con pochi accessori di scena che appaiono e scompaiono a vista, e con la proiezione di filmati in bianco e nero sullo sfondo per dare l'ambientazione. Una soluzione suggestiva. Centrali nella regia sono i corpi degli attori. A partire da quello del protagonista Danny. Per tutti la comunicazione passa dal corpo, dai suoi atteggiamenti, dall'interazione (spesso in termini di sopraffazione) con quello degli altri, dai giochi di posizione. La debolezza della regia sta nella poca differenziazione della comunicazione verbale, assai monocorde. Riflesso probabilmente di un testo che, scritto di getto, è un po' grossolano, privo di sfumature che sappiano dare una più profonda caratterizzazione psicologica a dei personaggi che appaiono piuttosto unidimensionali.
Tanti però sono i meriti del testo di Stephens. A cominciare dall'immediatezza con cui interviene sull'attualità (denunciando ad esempio l'indifferenza in cui sono lasciati i numerosi soldati che rientrano dall'Iraq in preda a profondi traumi psichici), ben inserendosi per altro nella bella tradizione dei giovani autori britannici arrabbiati. Quella di Stephens è una rabbia a tutto campo, che si fa sferzante e tagliente quando prende di mira il pacifismo di giornata, superficiale e di comodo. "Motortown" è sgradevole perché sgradevole è una società che fa la guerra come nei videogiochi, ha dei pensieri prêt-à-porter che si cambiano ad ogni stagione e non sa assumersi le responsabilità delle sue idee e dei suoi atti. È un testo brillante come uno specchio.

Pubblicato il 

15.12.06

Edizione cartacea

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