Il liberalismo tra difficoltà e contraddizioni

Ritornano ritornelli più volte sentiti: profitti che risultano stravaganti, rimunerazioni dei capintesta riesplose e scandalose (nonostante i tentativi di arginarle con disposizioni che si affidavano agli azionisti), pianeta sovrasfruttato che deve preoccupare (fosse solo perché può rendere elettoralmente), mercato onnipotente (non è il caso di essere troppo schizzinosi con l’Unione europea che ci circonda, con gli Stati Uniti che ci ricattano, con la Cina che investe, compra e promette).


C’è un interrogativo che sotto sotto serpeggia: c’è troppo liberalismo oppure non ne abbiamo abbastanza? Per gli uni ce n’è troppo, tanto che sta soffocando se stesso. Per gli altri è sempre troppo ostacolato da leggi, regole, burocrazia.


L’assurdità di questa contrapposizione sta nel fatto che gli uni e gli altri ammettano implicitamente che lo Stato ha perso potere (sovranità) e che dovrebbe riprendere in mano le redini. Con un intento unico: evitare i danni del troppo liberalismo. Sembrerebbe, quindi, che ci sia una sorta di rinascita di quelle idee interventiste che hanno sempre avuto un marchio di… sinistra. Un altro paradosso.


I danni sono però valutati in maniera diversa. Per una parte sono il libero scambio eccessivo, la libertà di commercio soverchiante, la mancanza di barriere che salvaguardino gli interessi del paese; poi la libera circolazione delle persone con le conseguenze negative sul lavoro o sulle cosiddette identità o sovranità nazionali (e, a sentire alcuni luminari Udc, anche sull’ambiente e sul clima). Danni che richiedono interventi decisivi, protezioni e chiusure da parte dello Stato. Per un’altra parte, invece, il problema sta nel liberalismo (capitalismo) sfrenato, che arricchisce solo alcuni, nella concentrazione del capitale, nella creazione di monopoli che arraffano, controllano e determinano tutto diventando più potenti degli Stati resi succubi, nelle diseguaglianze crescenti di cui soffrono ampi strati della popolazione e sulle quali prospera un populismo che assume sempre più volto e contenuti di un redivivo fascismo.


Su questo magma di confusione, che ha come punto comune la richiesta di una sorta di grande regolatore, si innestano interventi o propositi altrettanto contraddittori. Da un lato imperversano le politiche fiscali e monetarie che favoriscono ulteriormente la produzione di maggiori profitti, l’accumulazione e la concentrazione del capitale, disinteressandosi delle diseguaglianze. Maestri gli Stati Uniti, dove la concentrazione del capitale ha raggiunto il picco più alto della storia economica (l’ha appena scritto e dimostrato l’Economist, rivista faro del liberalismo). D’altro lato si fa viva la necessità di ristabilire la concorrenza (essenza del liberalismo) tassando perlomeno i monopoli. Maestra l’Unione europea che vorrebbe far subire ai monopoli Gafa (Google, Apple, Facebook, Amazon) quella sorte che gli Stati Uniti d’altri tempi fecero subire all’impero petrolifero di Rockefeller, smantellato nel 1911.


Ma qui, in verità, gli stessi liberali d’ogni risma e continente si trovano in difficoltà. Tanto da inventarsi il termine di “necessario liberalismo di sorveglianza” (e quindi di intervento e di regole) di fronte alla marea di proposte liberticide e di falsità, senza che nessuno se ne assuma la responsabilità, che corrono sulla rete. Ci si è accorti che accanto al capitale e al lavoro è emerso un altro fattore economico, che scombussola le vecchie idee tutte intessute di liberalismo: quello della “banca dati”, del patrimonio-informazioni, delle manipolazioni (speculazioni) che prolificano sempre a profitto di pochi.

Pubblicato il

03.04.2019 19:18
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