Il gioco delle tre carte

Il capo di un grande Stato, pronto a cogliere il vento favorevole e a risolvere verbalmente i problemi, ha cercato di illustrare come dovrebbe essere ripartita la ricchezza finanziaria creata, proponendo il gioco delle tre carte. L’utile di una società andrebbe diviso in tre parti uguali: un terzo per l’investimento, un terzo per i dividendi agli azionisti, un terzo per i salari. Simmetria e uguaglianza e a ognuno il suo terzo. Bella idea, se dentro non avesse il verme. Il risultato, infatti, è già asimmetrico perché agli azionisti vien dato due volte: in reddito (i dividendi) e in aumento patrimoniale (l’investimento autofinanziato dalla società valorizza la struttura di produzione e arricchisce quindi il proprietario, ossia gli azionisti).


Il trucco sta nel giocare su due registri: il distribuito (dividendi, salari) e l’investito (non distribuito). È troppo facile, per una società, trasformare un utile non distribuito in salario non distribuito, che potrebbe essere anche un bonus in azioni (autofinanziamento) per i grandi capi.


Dello SMI (Swiss Market Index) sentiamo tutti i giorni parlare quando la radio, ad esempio, ci recita la filastrocca degli andamenti borsistici. Quell’indice racchiude i valori delle società più blasonate della Borsa svizzera. Se noi facciamo un piccolo calcolo sugli utili netti conseguiti solamente da 15 di queste società lo scorso anno (quelle che hanno già pubblicato i bilanci) arriviamo alla cifra di quasi 53 miliardi di franchi. Ci sono quelle che da un anno all’altro realizzano aumenti stratosferici di utili (Credito Svizzero: +127 per cento) e ci sono quelle che indicano da un anno all’altro un utile negativo ma in realtà hanno raggiunto un utile pure stratosferico (Nestlé: diminuzione del 2 cento dell’utile ; utile netto ottenuto nel 2013 oltre 10 miliardi di franchi). Quest’ultimo caso dà sempre adito a notizie taroccate sul peggio, forse anche per parare richieste di aumenti salariali: “utile in calo per… ecc. ecc.” quando in realtà era solo forse troppo alto quello dell’anno precedente oppure è il risultato di maggiori investimenti per la solita “ristrutturazione” o per qualche acquisto (Swisscom, utile in calo del 6,6 per cento; utile realizzato 1 miliardo 690 milioni).


Sappiamo (informazioni bancarie) che le società dello SMI distribuiranno quest’anno 33,7 miliardi di franchi di dividendi e che il 60 per cento di esse ha aumentato i dividendi. I quali segnano in media da un anno all’altro una progressione del 9 per cento. Se pensiamo all’aumento medio dei salari, pur facendo anche una tara in quanto le società non sono tutte assimilabili a quelle principali quotate in Borsa, il gioco delle tre carte assume il sapore della barzelletta mal riuscita.


Si può però riprendere un discorso che con pretesti vari si cerca sempre di schivare. Ciò che abbiamo appena tratteggiato significa che c’è un costo o un sovracosto del capitale rappresentato dalle somme sempre più enormi che le società pagano agli azionisti, alla finanza, ai mercati finanziari. È un aspetto di quella che è stata definita la “finanziarizzazione dell’economia”; l’economia, quella reale, usata per rendere allegra la finanza la quale, mai contenta, pretende performances sempre maggiori. In parte a danno del reinvestimento, in buona parte dei salari e, grazie alle cosiddette “ottimizzazioni fiscali”, alle imposte. Di insufficiente competitività, esigendo freno o compressione dei salari, è infatti sempre imputato il lavoro. Mai il capitale.

Pubblicato il

12.03.2014 21:10
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