Il diritto alla privacy va difeso anche in tempi di pandemia

Certezze poche, ma su un punto ormai non ci sono dubbi: la pandemia fa bene ai ricchi. Un rapporto pubblicato da Oxfam a settembre spiega che nel 2020 i 25 miliardari più danarosi del pianeta sono diventati ancora più facoltosi. A dicembre, il Washington Post notava come 45 fra le 50 maggiori aziende americane quotate in Borsa abbiano registrato, nonostante tutto, profitti. Oltre la metà tuttavia ha licenziato.

 

La nuova situazione sta giovando in particolare all’industria farmaceutica, degli esami di laboratorio, del biotech e per l’innovazione digitale. Le prime tre stanno conoscendo un’insperata primavera grazie all’autorizzazione accelerata di vaccini ordinati dai governi per l’intera popolazione e in virtù del ruolo che i risultati dei “tamponi molecolari” rivestono nel passo dei governi. Le aziende che lavorano nel digitale, poi, non finiscono più di stappare bottiglie di champagne. Si registra, infatti, una vera esplosione di fatturato per quella che è stata ribattezzata “l’industria del lockdown”. Strumenti di comunicazione on-line, per l’organizzazione del lavoro da remoto e ogni diavoleria elettronica che consenta di recapitare a domicilio cibo e cotillons. Intendiamoci, roba per ricchi: stiamo pur sempre parlando di esseri umani che vivono nel Nord del pianeta. I problemi in Uganda e in Cambogia sono decisamente altri, anche nell’era del nuovo coronavirus. Là sono finiti in ginocchio, per esempio, i programmi di vaccinazione per malattie che da noi non esistono più da generazioni.

 

C’è da scommetterci, infine, che le menti fine delle lobby per iniziative ad alta digitalizzazione, molte delle quali includono una vigorosa invasione della privacy, si siano ormai scorticate i palmi a furia di fregarsi le mani. In virtù dell’emergenza si è abbassata l’asticella della tradizionale resistenza a farci togliere diritti fondamentali, come il diritto alla privacy. È diventato persino di cattivo gusto parlarne. Eppure, se sono tempi complicati per tutti e tutte, ci tocca comunque (e forse, anche più del solito) osservare cosa succeda intorno a noi. Per non ritrovarci a commentare “mi era sfuggito, che davvero si potesse arrivare a questo”. Parliamone, allora, della foga di trasferire di gran carriera dati personali su una miriade di nuove piattaforme elettroniche.

 

Penso al passaporto vaccinale digitale che Danimarca e Svezia hanno annunciato di voler introdurre quanto prima. Dicono i due governi che ci lavoravano già da un po’ e quale occasione migliore di lanciarsi. Significa che i dati sanitari, quanto di più confidenziale ci sia, saranno ospitati da un indiscreto telefono intelligente. Uno scan e varchi la frontiera, mangi al ristorante, nuoti in piscina. Mesi fa ci era stato detto che è da buoni cittadini, consentire a una App di registrare se abbiamo la febbre. Si è discusso fino alla nausea di sistemi informatici per il “track and tracing”. Non se ne parla più granché, ma in qualche
paese è andata come temevano i pessimisti, vedi alla voce Singapore dove la polizia ha ottenuto il permesso di utilizzare quei dati per altri scopi.

 

Se vuoi viaggiare, d’altronde, ormai è indispensabile un “test negativo”, che moltiplica per due il costo del tragitto. Almeno per una come me, che quando può parte da Berna per andare a Roma a trovare mamma, papà e l’adorata zia. I due test mi costano quanto il viaggio. Il risultato? Il laboratorio lo spedisce per via elettronica. Mi hanno chiesto di indicare se mi garba riceverlo via WhatsApp. È la pandemia, bellezza.

Pubblicato il

04.03.2021 10:52
Serena Tinari
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