I “passeggeri clandestini” sono un fenomeno assai diffuso. Solitamente si ritiene che siano quelli che salgono su un mezzo pubblico senza comperare il biglietto. Il significato, in economia, va esteso: è un comportamento che si manifesta quando singoli individui o cittadini approfittano di un bene senza pagarne il prezzo, lo scaricano su altri.


Un esempio di “passeggero clandestino” lo si riscontra con il sindacato. Alcuni dati e alcune inchieste ce lo dimostrano. I lavoratori affiliati a un sindacato, che vi partecipano quindi versando una quota, sono in Svizzera poco più di 738.000. Da cinque anni, da quando è scoppiata la crisi, sono in calo. Il dato che ci interessa è però un altro: poco meno di due milioni di salariati (inchiesta da poco pubblicata dall’Ufficio federale di statistica) sono protetti da un contratto collettivo del lavoro. È una copertura tre volte superiore agli effettivi sindacalizzati. Eppure i contratti collettivi sono nella stragrande maggioranza frutto di trattative laboriose dei sindacati che ne controllano anche l’applicazione. Basta il confronto con queste cifre per accorgersi di quanto siano numerosi i “passeggeri clandestini”.


C’è una singolare contraddizione in tutto questo. Da un lato, tendono a diminuire i lavoratori che avvertono la necessità di unirsi e costituirsi in forza contrattuale “istituzionalizzata”, soprattutto in tempo di crisi o di incertezza, di fronte all’altra forza (politica-economica-finanziaria) soverchiante e ferreamente unita. D’altro lato, pur potendo contare su 600 contratti collettivi che garantiscono condizioni accettabili in vari rami di attività, risulta  chiaro che la maggior parte dei lavoratori ne rimane esclusa e non può neppure figurare tra i “passeggeri clandestini”. L’introduzione di un salario minimo permetterebbe perlomeno di far fronte alla parte più inaccettabile di questa esclusione.


A questa contraddizione potremmo dare tre spiegazioni. L’una ideologica-politica, dovuta a una strisciante ostilità della mentalità imperante e dello stesso apparato politico che ne è succube, nei confronti del sindacato, ritenuto elemento di disturbo o causa di ogni male economico, soprattutto in termini di competitività (costi salariali sempre troppo alti) o di condizioni di lavoro (mancanza di flessibilità, rifiuto del lavoro domenicale eccetera). Una seconda economica, dovuta alle trasformazioni in atto nel sistema produttivo o alla liberalizzazione e alla mondializzazione, che mettono i lavoratori gli uni contro gli altri e fanno del ricatto (ristrutturazioni, dislocazioni) un’arma micidiale, che rende l’opera di sindacalizzazione complessa e difficoltosa. Una terza che potremmo definire sociologica, nel senso che gli stessi salariati esprimono atteggiamenti sempre più individualisti, persino “sindacalnazionalisti”, preoccupati solo del proprio orto, ed è quindi assai difficile seguirli o solidarizzarli.


Queste spiegazioni si assommano. La più importante e la più devastante è comunque la seconda, che potremmo definire del “capitalismo disgregatore”. Che è poi l’economia dominante che tutto governa e tutto frammenta. Sia il sistema produttivo, tanto da rendere alle volte introvabile l’altra parte (chi è il “padrone”? Dov’è la società, il gruppo?). Sia il salariato e i rapporti di lavoro: o individualizzandoli o rendendoli precari o mettendo salariati contro salariati. I “passeggeri clandestini” sono approfittatori del sindacato; i lavoratori che non si rendono conto di dover ritrovare una propria unità operativa sono i gabellati del sistema.

Pubblicato il 

10.04.14

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