Lavoro e dignitĂ 

Lo chiamano il “passo Amazon”. «Svelto, veloce ma mai di corsa», lo raccontano così i lavoratori del centro di distribuzione di Passo Corese, un paesino tra le colline della Sabina 30 chilometri a nord di Roma dove la multinazionale del commercio elettronico ha aperto il secondo hub italiano. Lo devi tenere dal momento in cui timbri il cartellino con l’apposito badge, mentre sali o scendi le scale senza abbandonare il corrimano, ti dirigi alla postazione seguendo il percorso pedonale o svolgi le tue mansioni, fino a fine turno. Se non lo fai, rischi un feedback negativo, una sorta di ammonizione che peserà sul rate, il tuo punteggio personale, e in definitiva sull’assunzione, se non hai un contratto a tempo indeterminato.

 

Il gergo di Amazon è rigorosamente anglofono: i lavoratori a termine sono identificati con un green badge, quelli fissi con uno blu, al pianterreno ci sono l’inbound, il reparto di scarico delle merci, e l’outbound, quello di impacchettamento. «Gli instructor ti insegnano i movimenti smart, ora stanno introducendo la job rotation per cercare di alleviare la stanchezza, però poi ti chiedono ritmi insostenibili ed è chiaro che finisci per sbagliare postura», spiega una lavoratrice che, a furia di prelevare merce dagli scaffali – «fino a seicento pezzi all’ora» – dopo un anno si è ritrovata con una mano a pezzi. «Per quello che faccio io devi piegarti per sette ore e mezza. All’inizio hai dolori dappertutto, poi però ti abitui, magari prendi qualche antidolorifico e vai avanti, fino a quando cominci a fare le visite mediche e scopri i malanni», racconta ancora.
Lei è una picker, a ogni inizio turno ascolta da un manager, a ritmo di musica «scelta appositamente per gasarti», gli obiettivi di giornata, sale alla Robotic storage area al primo piano, entra in una gabbia metallica dove legge le ordinazioni da un computer, prende gli oggetti dagli scaffali robotizzati – dove sono stati sistemati dagli stower – e li mette in apposite ceste che sistema su un nastro trasportatore diretto all’outbound. I ritmi sono serrati, specie nella fase di fast start a inizio turno, lei non parla con nessuno fino alla pausa, quattro ore e mezza dopo, salvo rispondere ai controllori che «passano a verificare il mio lavoro e a farmi notare ogni mancanza». I tempi sono contingentati al punto che pure andare in bagno più di una volta può significare il fallimento dell’obiettivo di consegna giornaliera. Un risultato negativo che puntualmente viene fatto notare. «Una volta mi hanno chiesto conto del perché fossi andata troppe volte in bagno, ho dovuto mostrare l’assorbente per far vedere che avevo le mestruazioni», ricorda Giorgia Nescatelli, una sua ex collega di reparto che dopo appena ventiquattro giorni si è dimessa volontariamente perché «è un lavoro molto usurante dal punto di vista psicologico».


Quella che mi descrive un pugno di lavoratori di Passo Corese che ha accettato di parlare è la catena di montaggio ai tempi del capitalismo delle piattaforme, raccontata da chi ci lavora. Dentro Amazon non si muore di lavoro perché l’attenzione alla sicurezza è quasi maniacale, ma ci si ammala lentamente di disturbi muscolari o scheletrici. Tra i lavoratori di Passo Corese circola una battuta: “Qui dentro ci vorrebbe il dispenser di Oki”, uno dei più potenti anti-infiammatori in circolazione nel Belpaese. L’azienda lo sa e per questo ha stipulato convenzioni con palestre e centri di fisioterapia, mentre all’interno sono a disposizione un medico, un infermiere e pure uno psicologo.


In Italia la multinazionale fondata da Jeff Bezos, con una capitalizzazione a Wall Street da oltre mille miliardi – seconda solo ad Apple – ha investito 1,6 degli 83 miliardi spesi in tutta Europa (non in Svizzera, dove ha deciso di non aprire una propria sede). Nel centro di distribuzione di Passo Corese, lavorano in duemila, ma nei periodi di picco di consegne – come a Natale o per il Black Friday – si sfiorano i tremila, grazie al lavoro su chiamata con un “monte ore garantito”. Federico Mattei, 24 anni, studente universitario di Antropologia, ci ha lavorato quattro mesi. Alcuni suoi ex colleghi gli hanno affidato un elenco di denunce da portare all’esterno. Si va dai turni alienanti ai controlli, fino alla gestione del tempo e alla meritocrazia solo sbandierata. «Se vuoi sperare di essere confermato, il tuo rate deve essere alto, e questo scatena una competizione perversa tra i precari», spiega. Si fa di tutto per superare gli obiettivi e ingraziarsi i manager, una sorta di capiarea, o i leader, che stanno un gradino sotto i primi.


Soprattutto, quello che dall’interno ci tengono a far sapere è che «qui non esistono i sindacati». Amazon propaganda ai suoi dipendenti l’idea di essere una “grande famiglia” nella quale ci si batte per un obiettivo comune: la soddisfazione del cliente. Gli ordini vanno eseguiti nel tempo di consegna previsto, e perché tutto proceda senza intoppi è necessario che il lavoratore sia efficiente e in buona salute, e che non ci sia conflittualità interna. In meno di due anni di vita, i lavoratori di Passo Corese non hanno mai scioperato né si sono organizzati per far valere le loro richieste, com’è invece accaduto nell’altro grande hub italiano, quello di Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, dove i sindacati hanno protestato per chiedere l’assunzione di 1.951 lavoratori a termine, mentre gli assunti senza scadenza sono 1.651. Il 26 febbraio, alla protesta dei driver di Amazon a Milano è intervenuto Maurizio Landini. «Come consumatori, ci dobbiamo interrogare sulle condizioni di lavoro di coloro che fanno il servizio che abbiamo richiesto», ha detto il neosegretario della Cgil.


A Passo Corese invece è tutta un’altra musica. “Work hard, have fun, make history” (lavora duro, divertiti, fai la storia), è il motto scritto a caratteri cubitali nella sala che a settembre scorso, per festeggiare il primo anno di vita dello stabilimento, ha ospitato il cantante spagnolo Alvaro Soler, star del talent show “Tú sí que vales”, esibitosi davanti ai dipendenti che facevano la ola.

Pubblicato il 

21.03.19
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