L'editoriale

Nel quadro di un pacchetto di votazioni in cui hanno tendenzialmente prevalso le ragioni del fronte progressista, il 27 settembre scorso le cittadine e i cittadini svizzeri hanno affossato l’idea di una “Swissexit” contenuta nell’ennesima iniziativa isolazionista e neoliberista dell’Udc, che mirava a rompere la via bilaterale nelle relazioni con l’Unione europea e, soprattutto, a fare piazza pulita delle già fragili norme di protezione dei salari e dei lavoratori previste dal diritto elvetico.

Il tentativo di cancellare diritti e legalizzare il dumping salariale mascherandosi dietro la presunta necessità di limitare l’immigrazione è fallito: la maggioranza della popolazione, anche grazie al lavoro svolto dal movimento sindacale, ha capito l’inganno e ha rifiutato il modello di una libera circolazione senza regole. Una decisione che da un lato dovrà essere determinante per ogni ulteriore sviluppo delle relazioni con l’Ue e che dall’altro apre spazi al fronte sindacale e di sinistra per alzare l’asticella delle rivendicazioni.


Sul piano dei rapporti con Bruxelles, l’attenzione è ora tutta concentrata sulle sorti del cosiddetto “Accordo quadro” (o “istituzionale”), che consentirebbe adeguamenti automatici della legislazione svizzera agli sviluppi del diritto comunitario in alcuni ambiti oggetto di accordi bilaterali (tra cui quello sulla libera circolazione). Un accordo congelato da due anni in attesa del voto sull’iniziativa Udc e il cui destino, un po’ paradossalmente, appare oggi più segnato che mai.


Nella sua forma attuale è infatti inaccettabile, soprattutto perché mette in discussione le poche misure contro il dumping salariale di cui disponiamo e minaccia il servizio pubblico, secondo la più tradizionale “religione” liberista che agli interessi dei cittadini e dei salariati antepone il mercato e la concorrenza. I sindacati e la sinistra lo stanno ripetendo da due anni e ora è chiaro anche all’interno del fronte padronale e in pezzi dei partiti centristi che un salvataggio dell’intesa istituzionale può solo passare da un nuovo negoziato. Un nuovo negoziato che Bruxelles difficilmente sarà però disposta a concedere: la presidente della Commissione Von der Leyen già pochi minuti dopo la dichiarazione dei risultati della delicata votazione si è affrettata a chiedere che il Consiglio federale «proceda rapidamente a firmare e far ratificare l’accordo quadro istituzionale». Un modo di fare che denota una certa ignoranza su quelli che sono i rapporti di forza della politica svizzera e sul valore della democrazia diretta. E che certo allontana la possibilità di trovare un’intesa. È dunque probabile che il chiaro sì del popolo svizzero alla libera circolazione e alla via bilaterale nelle relazioni con l’Ue alla fine si riveli il “certificato di morte” dell’Accordo quadro. Il che non sarebbe affatto un dramma e non intaccherebbe la credibilità della Svizzera, come affermano i fautori di un compromesso a tutti i costi.


Prima vengono i diritti dei lavoratori e dei cittadini, come ha avuto modo di esprimere il popolo nelle varie votazioni del 27 settembre. Con decisioni non certo rivoluzionarie, ma che fanno sentire soffiare un venticello progressista, che dovrebbe spronare le forze sindacali e di sinistra a compiere un salto di qualità sul piano delle rivendicazioni: in tema di politiche sociali, di giustizia fiscale, di servizio pubblico e, soprattutto, di diritti.

Pubblicato il 

08.10.20
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