«La considerazione che ho presso popolazione ticinese è diversa da quello che ho nei circoli politici». Così il socialista Franco Cavalli spiega il suo successo personale nel primo turno delle recenti elezioni federali ma anche la speranza concreta di farcela, il prossimo 20 novembre, a conquistare uno dei due seggi ticinesi al Consiglio degli Stati. Sarebbe una prima assoluta per un esponente della sinistra.

 

Sessantanove anni, una lunga carriera politica alle spalle sia a livello cantonale sia a livello federale e quasi sempre con ruoli da protagonista, Franco Cavalli è però soprattutto un medico, un ricercatore di fama mondiale nel campo dell'oncologia, oltre che un paladino della solidarietà internazionale, un terzomondista, promotore e coordinatore di importanti progetti sociosanitari in Asia e America latina. A ricordare questo suo decennale impegno anche una vetrina dedicata all'Associazione di aiuto medico al Centro America (Amca) posta all'ingresso del suo ufficio, al terzo piano dell'Istituto oncologico della Svizzera italiana di Bellinzona (Iosi), dove lo abbiamo incontrato negli scorsi giorni per farci raccontare le sue sensazioni a un paio di settimane dalla fine di una lunga campagna elettorale e dal verdetto degli elettori, chiamati a scegliere due senatori tra i quattro candidati in lizza: il democristiano Filippo Lombardi (uscente), il liberale-radicale Fabio Abate, il candidato della destra Sergio Morisoli e Germano Mattei della lista civica Montagna Viva.

 

Dottor Cavalli, con quasi 36 mila voti personali, nel primo turno delle elezioni federali lei ha raddoppiato il numero di voti ottenuti dal Partito socialista ticinese per il Consiglio nazionale e migliorato di 3 mila il dato di 4 anni fa. Come spiega questo successo per un esponente dell'ala sinistra del partito che nemmeno tra i suoi fa l'unanimità?

Ritengo che per l'elettorato conti molto quello che ho fatto per la medicina ticinese. Sono inoltre conosciuto come uno dice "pane al pane e vino al vino", il che all'interno del partito ogni tanto crea qualche problema mentre all'esterno viene apprezzato.

C'è chi considera la sua candidatura come un ostacolo al rinnovamento. Ritiene che a 69 anni si possa ancora rappresentare qualcosa di nuovo?

In questa battaglia politica e in un contesto generale in cui si tende a premiare il giovanilismo anziché l'esperienza, l'età non è certo un vantaggio per me. Tuttavia ho l'impressione che il mio modo di fare e le questioni che ho a cuore vengano apprezzati dai giovani. In queste settimane ne ho incontrati molti davanti ai licei del cantone e mi hanno confermato questa sensazione.

La franchezza, suo slogan elettorale, paga sempre?

Non sempre, ma per me è fondamentale. Se oggi notiamo un distacco della gente dalla politica è perché i politici spesso non dicono la verità o parlano in modo incomprensibile per non rispondere alle domande scomode. Io sono sempre franco, come mi hanno insegnato a essere i miei genitori: su questo non ho mai fatto compromessi e non intendo farne.

La stampa svizzero-tedesca, che di lei si era molto occupata in particolare quando era capogruppo socialista alle Camere federali, amava definirla, con una punta di disprezzo, il "Che Guevara del Ticino". In che misura si riconosce in questa definizione?

Mi fa indubbiamente molto piacere: Che Guevara è uno dei miei idoli e uno degli idoli della Curva dell'Ambrì, la mia squadra del cuore. E poi, anche lui era un medico che si è impegnato in politica fino alla morte, uno che non ha mai fatto compromessi e ha sempre parlato franco.

Rappresentare gli interessi del Ticino a Berna, come compete a un Consigliere agli Stati, cosa significa per lei concretamente? Difendere il raddoppio della galleria del San Gottardo?

Il Ticino, per la sua situazione geografica, vive in maniera pronunciata alcuni problemi esistenti anche nel resto della Svizzera. Basti pensare per esempio a quello dei lavoratori frontalieri, che è reso acuto dalla vicinanza con la Lombardia, una realtà economica di nove milioni di abitanti con cui Ginevra, per esempio, non deve fare i conti. In questo contesto il primo problema grave che mi viene in mente non è dunque certo il raddoppio della galleria del San Gottardo ma il fatto che in questo cantone si pagano i salari più bassi di tutta la Svizzera.

Quali categorie sociali vuole rappresentare a Berna?

I meno abbienti in generale. In particolare i lavoratori, gli impiegati, gli studenti, gli indipendenti in difficoltà.

Il Partito socialista svizzero ormai non va oltre il 20 per cento dei consensi. Non crede che questo sia anche dovuto al fatto che è venuto meno il legame con il mondo del lavoro?

Nelle fasi di grave crisi economica succede regolarmente che le ricette della destra, tendenzialmente semplici, abbiano maggiore successo. Tuttavia è un dato di fatto che buona parte della dirigenza socialista abbia operato un distacco dal mondo del lavoro, il che ha portato il partito anche a commettere degli errori. Come quando ha consentito l'approvazione dell'accordo sulla libera circolazione delle persone con l'Unione europea accontentandosi di misure accompagnatorie contro il dumping sociale e salariale che, come si poteva prevedere, alla prova dei fatti sono poi risultate insufficienti. In particolare avremmo dovuto dare un segnale politico forte bloccando l'estensione dell'intesa a Romania e Bulgaria.

Oggi c'è chi ipotizza di disdire quegli accordi. Lei cosa suggerisce?

La via corretta da seguire è quella di adottare misure accompagnatorie più incisive di quelle esistenti. In particolare: definire per legge salari minimi non inferiori ai 4 mila franchi mensili, introdurre l'obbligo per gli enti pubblici di appaltare lavori solo a imprese che sottostanno ad un contratto collettivo, nonché vietare pratiche  quali il lavoro non retribuito o il pagamento dei salari in euro. Pratiche (molto in uso di questi tempi) che sfavoriscono la manodopera ticinese ma che purtroppo godono del sostegno dei miei principali avversari nella corsa agli Stati.

Il lavoro a volte fa ammalare e in alcuni casi pure morire, come probabilmente avrà modo di constatare anche nell'ambito della sua attività di medico. Come giudica il fenomeno e quali interventi s'imporrebbero?

Viviamo in una società in cui l'intera struttura del lavoro è pensata per massimizzare il profitto. È per questo che si è potuta consumare una tragedia (peraltro non ancora conclusa) come quella dell'amianto. Ed è per questo che l'aspettativa di vita di un operaio edile è di 13-14 anni inferiore a quella di un manager. Ciò non vuol dire che non si debba lavorare, perché anche la disoccupazione può essere causa di malattie come la depressione o l'alcolismo. Ma il lavoro andrebbe reso più umano: non semplicemente un mezzo per guadagnarsi da vivere ma una fonte di soddisfazione che faccia sentire l'individuo come parte utile della società.

In generale, la politica fatica a recepire le raccomandazioni che vengono formulate dalla comunità scientifica a tutela della salute dei lavoratori e dei cittadini. Da anni si sa per esempio che il Mendrisiotto è la regione della Svizzera con il più alto tasso di tumori del polmone, eppure si è continuato a realizzare centri commerciali e a portare altri generatori di traffico sul territorio come se nulla fosse. Vuol dire che il politico non ascolta il medico?

Vuol dire che il mondo della politica è dominato da potenti lobby attente solo ai tutelare i loro interessi economici. Il caso dell'amianto è forse il più clamoroso: già nel 1916 alcune compagnie assicurative si rifiutavano di assicurare le aziende che utilizzavano questa fibra, perché evidentemente se ne conosceva la dannosità. Eppure ci sono voluti più di settant'anni perché venisse messo al bando, si è dovuto attendere che l'evidenza diventasse così grande che politici non potevano più chiudere gli occhi. E lo stesso discorso vale per l'industria delle sigarette che per trent'anni ha tenuto nascosta la verità sui danni del fumo e oggi per le società petrolifere che pagano pseudo esperti per nascondere i danni dei cambiamenti climatici.

Durante dodici anni trascorsi a Berna lei è riuscito a far diventare la politica sanitaria uno dei temi chiave del suo partito, ma le proposte che  ha formulato, anche attraverso due iniziative popolari per una cassa malati unica e premi proporzionali al reddito (portate avanti quasi in solitaria), sono fallite. Intende tornare alla carica?

Tutte le questioni legate all'assicurazione malattia e alle strutture sanitarie restano per me la priorità. Anche perché il sistema è ormai vicino all'implosione. E devo dire che il progetto di cassa malati unica (oggetto di un'iniziativa popolare appena riuscita, ndr), che all'epoca era stato affossato da un investimento di decine di milioni di franchi in propaganda da parte degli assicuratori malattia, gode oggi di un consenso sempre più vasto sia nel Parlamento sia nel paese. Viene ormai riconosciuto anche da molti politici borghesi che non ha senso avere 85 casse malati i cui enormi costi amministrativi vengono alla fine riversati sui malati. Certo, la cassa unica non è la soluzione a tutti i mali, ma la condizione di partenza per risolvere i problemi del sistema sanitario. Essa è garanzia, oltre che di minor burocrazia, di trasparenza e di un reale potere contrattuale rispetto all'industria farmaceutica.

Lei evoca spesso la possibilità di creare una facoltà di medicina in Ticino. Non è un progetto forse troppo ambizioso?

Oggi in Ticino abbiamo un sistema sanitario di tale qualità che anche le università della Svizzera tedesca riconoscono come possibile la creazione di una facoltà di medicina, impensabile fino a una ventina di anni fa. È sicuramente un progetto a cui intendo dedicarmi

Lo Iosi, struttura che lei ha creato, in che misura ha contribuito a questo salto di qualità della medicina ticinese?

Quando, nel 1978, iniziai l'attività di medico la struttura sanitaria ticinese aveva un'organizzazione di tipo medievale e per il ticinese la "miglior medicina" era quella del "treno per Zurigo". Poi però, il coordinamento dei servizi per i malati tumorali ha spianato la strada al coordinamento di tutti i servizi ospedalieri e alla nascita dell'Ente ospedaliero cantonale. E oggi siamo all'altezza di una facoltà di medicina.

Quali vantaggi concreti porterebbe al Ticino?

Innanzitutto sarebbe una garanzia per il futuro di cure ospedaliere di alta qualità, poiché

la presenza di una facoltà impone il rispetto di tutta una serie di parametri in questo senso. Inoltre sarebbe di fondamentale importanza per la ricerca e per la formazione di giovani ticinesi, sia nel campo infermieristico sia in quello medico. Cioè in due settori in cui c'è una grande domanda. E poi, in un paese la cui unica ricchezza naturale, se si eccettua l'acqua che serve per produrre elettricità, sono i cervelli non si può che investire nella formazione e nella ricerca.

Lei è sempre stato un medico del servizio pubblico. Si immagina una partecipazione anche dei privati in un'ipotetica facoltà di medicina?

In Svizzera la legge non consente facoltà di medicina private. Sono fiero di aver contribuito a impedire che questo divieto cadesse quando una parte del parlamento lo voleva. Questo non significa che non saranno possibili collaborazioni con enti privati, ma dovranno essere subordinati al soggetto pubblico.

Con quale degli altri candidati al Consiglio degli Stati vorrebbe prendere il treno per Berna? Con Filippo Lombardi, visto che è il presidente dell'Hockey club Ambrì-Piotta, sua squadra del cuore?

Saranno i ticinesi a deciderlo, ma penso che Lombardi sarà del viaggio. La sua elezione mi pare piuttosto scontata. Il secondo posto ce lo giocheremo Fabio Abate  ed io. Cioè un rappresentante della destra e uno del centro-sinistra.

Ma Fabio Abate è di destra?

È uno che non prende sempre posizione ma quando lo fa si schiera sulla destra.

Ma è comunque il candidato meno distante da lei...

Essendo di destra mi è distante. E poi, trattandosi di fatto di una corsa a due, è ovvio che ogni voto per lui è un voto contro di me. Caso mai il candidato che sento più vicino è Germano Mattei (della lista Montagna Viva, ndr), soprattutto per il fatto che anche lui come me è indipendente da ogni lobby e non mandati nei consigli di amministrazione.

Quattro anni fa avrebbe però voluto andare agli Stati con Dick Marty, compagno di partito di Abate...

Abate è lontano anni luce da Marty, da tutti i punti di vista. Io garantirei maggiore continuità, soprattutto in materia di politica estera, di diritti umani e di aiuto allo sviluppo, su cui tra me e Marty c'è sempre stata sintonia assoluta. Al suo fianco mi sono per esempio battuto affinché il Parlamento svizzero riconoscesse il genocidio degli armeni del 1915 da parte dell'esercito turco. E se sarò eletto mi impegnerò perché lo stesso avvenga per il popolo aramaico, che pure tra il 1915 e il 1916 è stato oggetto di uno spaventoso massacro purtroppo dimenticato dalla storia.

Pubblicato il 

11.11.11

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