Altri sguardi

A 34 anni, Múte Inequnaaluk Bourup Egede sarà il primo ministro più giovane del mondo. Toccherà a lui, dirigente del partito Inuit Ataqatigiit, il compito di trovare una maggioranza per formare il governo della Groenlandia. In questo territorio grande quattro volte la Francia e abitato da 56.000 abitanti l’economia si è sempre fondata sulla pesca e sui sussidi stanziati dalla Danimarca che da 300 anni controlla l’isola. La Groenlandia è però una terra ambita da interessi pubblici e privati internazionali che cercano di accaparrarsi le materie prime nascoste sotto i ghiacci. Una corsa allo sfruttamento che ha di fatto sancito l’ascesa al potere del partito ecologista inuit.

 

Dal 1979, anno dell’ottenimento di un’autonomia parziale, la politica locale è quasi sempre stata guidata dal partito Siumut, formazione social-democratica oggi in preda a diatribe interne. Nelle elezioni legislative anticipate dello scorso 6 aprile, ecco la sorpresa: la vittoria è andato al partito Inuit della sinistra ambientalista. Una scelta storica, dovuta alla ferma opposizione ad un progetto minerario che prevede l’estrazione di uranio e di terre rare, metalli sempre più indispensabili per le nuove tecnologie. Anche quelle definite verdi, ma il cui reale impatto ecologico andrebbe misurato a partire dal processo estrattivo.

 

Proprio l’appetito per le terre rare sta rendendo la Groenlandia un nuovo Eldorado. Il fatto che il territorio fosse quasi interamente coperto di ghiaccio aveva finora complicato lo sfruttamento del sottosuolo. Ma ora, con lo scioglimento della calotta dovuto al cambiamento climatico, gli appetiti delle superpotenze e delle multinazionali verso la più grande isola del mondo sono aumentati. Il boccone più stuzzicante per l’industria estrattiva è senz’altro la miniera di Kvanefjeld, nei pressi del villaggio di Narsaq all’estremo sud del paese. Qui sotto si stima che ci siano 11 milioni di tonnellate di terre rare oltre che 270mila tonnellate di uranio.  Riserve enormi e molto allettanti che, qualche anno fa, hanno attirato gli investimenti della società australiana Greenland Minerals. Una multinazionale il cui azionista principale è poi divenuta la società pubblica cinese Shenghe Resources Holding, sorta di braccio economico di una Cina che vuole controllare – e di fatto già controlla - la produzione mondiale di terre rare.

 

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Nel 2019, il primo ministro uscente Kim Kielsen aveva declinato gentilmente l’offerta di Donald Trump di acquistare l’isola. Il Governo e il Parlamento dominati dal partito Siumut, però, non si erano certo opposti agli investitori stranieri che potrebbero portare un po’ di quattrini ad una regione dove gli indicatori sociali (suicidi, alcolismo eccetera) sono più che allarmanti.

 

Vuoi per la pericolosità dell’uranio, vuoi per l’implicazione geopolitica della Cina, il progetto è stato però sin da subito contestato. Proteste e malumori nati dal basso, dalla popolazione inuit che vive nella zona della miniera, che hanno poi spinto al cambio di opinione di alcuni esponenti della maggioranza e alle elezioni anticipate vinte così dal partito Inuit. A cui spetta ora il difficile compito, oltre che di creare un governo, di mostrare al mondo uno dei paradossi della green economy. Quello di voler rendere più ecologiche alcune parti del mondo, a discapito di altre.

Pubblicato il 

09.04.21
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