Nelle scorse settimane, da più parti sono state presentate cifre, statistiche, sono state lanciate campagne di sensibilizzazione, si sono svolti convegni da cui sono emersi intenti e programmi d'azione. Tutto questo nel nome della lotta alla violenza contro la donna. Ma che cosa significa per una donna, per una ragazza, vivere sulla propria persona, sul proprio corpo, una violenza? Solo chi ha vissuto quell'incubo lo sa. Emanuela G., qualche settimana fa ha scritto al nostro giornale una lettera in cui ci invitava a raccontare la sua storia «affinché altre donne possano tentare di fare giustizia o quantomeno reagire». Non tutte ce la fanno. «Mia figlia aveva solo 22 anni quando è stata violentata ed è entrata in un tunnel che l'ha portata alla morte. In memoria di tutte le vittime della violenza, raccontate la storia di Emanuela», ci ha esortato in una lettera, la settimana successiva, il signor V.B.. Noi Emanuela G. l'abbiamo incontrata. Questa è la sua storia.

Emanuela ha 28 anni. Nel 1990, il suo compagno (oggi suo marito) lasciò la Calabria per raggiungere Winterthur dove aveva ottenuto un lavoro interessante. Sei anni dopo, nel '96, Emanuela lo raggiunse. Non è sempre facile adattarsi ad una nuova città, in un paese in cui la lingua parlata è diversa dalla propria. Ma la coppia ce la mise tutta: insieme, costruirono una famiglia: nel '98 nacque la primogenita; tre anni fa la seconda. Le giornate di Emanuela e del marito sono uguali a quelle di tante altre famiglie: mentre il marito è al lavoro, la giovane si occupa delle proprie figlie a tempo pieno. «Siccome il lavoro di mamma mi occupa completamente, ho preso l'abitudine di fare shopping ordinando dai cataloghi per corrispondenza. Da quando sono in Svizzera, ricevere pacchi e pacchetti è così diventata la norma», racconta Emanuela. Una "norma" che ha segnato il suo destino e quello di tutta la sua famiglia.
Un giorno, lo scorso anno, un pacchetto a lei destinato venne recapitato dal postino direttamente sulla porta, al quinto piano. «Che gentile! – ha pensato Emanuela – Così l'ho invitato a bere un caffè. Abbiamo chiacchierato un momento. La scena si è ripetuta altre volte: abbiamo iniziato a conoscerci: bevendo il caffè parlavamo del più e del meno, della mia famiglia io, lui della sua». Un giorno apparentemente come tanti altri, qualche mese dopo, Marcus (*) è salito al piano con un pacco per Emanuela. «Quel giorno ero in cucina a preparare dolci per la festa della mia bambina così, diversamente dal solito, l'ho invitato a bere il caffè in cucina. Non ho avuto il tempo di girarmi che sono stata aggredita alle spalle, spinta in salotto e, infine, gettata sul divano. Poi la violenza. Iniziò l'incubo. Per diverse ore sono stata in uno stato di totale incoscienza, poi mi sono fatta una doccia e ho gettato via i vestiti che indossavo»,  racconta Emanuela. Quella sera al marito non raccontò nulla. E nemmeno le sere successive. Quel segreto rimase per molto tempo solo suo. In casa Emanuela non riusciva più ad occuparsi delle figlie e del marito come avrebbe voluto e dovuto. Nella disperazione ha chiamato sua madre facendola venire in Svizzera dal sud Italia. Nemmeno alla madre però riuscì a dire la verità. «A lei avevo detto che mi sentivo depressa, che ero in una fase un pò così e avevo bisogno di lei», racconta.
Trascorse diverso tempo prima che Emanuela decidesse di andare da un medico. Una visita che l'ha poi spinta, progressivamente, ad aprirsi con suo marito. «Sono stata fortunata: mio marito mi è stato vicino dal primo istante. Mi ha sempre creduto, ha sempre continuato ad amarmi. Sono io, invece, ad essermi in un certo senso allontanata. Dopo quello che ho vissuto tutti gli uomini per me sono uguali, sia mio marito, sia mio padre. Tutti sono uomini, tutti sono come Marcus. Ora va meglio ma ancora adesso, quello che vivo con mio marito è un rapporto come quello che possono avere normalmente un fratello e una sorella». Grazie al dottore, al sostegno del marito e all'appoggio che l'associazione Not-Thelefon, associazione che l'ha aiutata a fare i primi passi e l'aiuta tutt'oggi, ha avuto la forza e il coraggio di sporgere denuncia. Ma prima di fare questo passo è trascorso del tempo. Quasi cinque mesi. Un periodo duro in cui Emanuela ha continuato a subire. «Marcus mi minacciava, si sentiva il più forte perché pensava che non avrei mai avuto il coraggio di sporgere denuncia. Si posizionava sotto casa mia quando sapeva che dovevo uscire per andare a prendere la bimba dopo scuola, mi seguiva per strada. La violenza l'ho subita ancora».
Da questi nuovi episodi Emanuela ha anche ottenuto l'obbligo per Marcus di stare ad almeno 200 metri da lei e da tutti i suoi famigliari (infatti è capitato che cercasse di abbordare la figlia maggiore fuori dalla scuola). Dopo questo evento Emanuela è stata sottoposta dal medico a una forte dose di calmanti. Tanti che molto spesso passava intere giornate a dormire o quando usciva girava per strada completamente intontita. Più volte si è ritrovata sotto casa di Marcus, alcune volte anche con un coltello. «Volevo vendicarmi. Volevo ucciderlo. Non l' ho mai trovato. Per fortuna. Non era quella la soluzione: in un attimo sarei passata da vittima a carnefice e messa dietro le sbarre. Così mi sono autodenunciata alla polizia alla quale ho consegnato i coltelli», racconta.
Dopo questa vicenda era stata ventilata la possibilità di ospedalizzare Emanuela in una clinica specializzata «una di quelle in cui ci sono le sbarre alle finestre e le porte si chiudono automaticamente la sera a un'ora prestabilita. Una sorta di prigione». L'opzione fu scartata perché la clinica era nello stesso quartiere in cui abita Marcus ma anche perché avendo subito violenza dentro casa, la clausura non era una buona soluzione per il suo stato psicologico. Così Emanuela ha ricominciato a curarsi andando i pomeriggi al centro Not-Telefon, instaurando un buon rapporto con il medico, seguendo mille terapie che scandiscono tuttora le sue giornate. «Una delle reazioni nella fase post trauma sono dolori fortissimi agli arti, il blocco di alcuni movimenti che quindi devo riapprendere. Cerco per quanto possibile di occuparmi della mia famiglia. Ma è difficile. Mio marito è stato forte ma nella scorsa primavera ha visto emergere in superficie le sue reazioni, il suo dolore: ha fatto due infarti. Lui ha 35 anni. Anche lui è seguito da uno psicologo. La figlia più grande abbiamo cercato di preservarla da tutto ma ha capito da sola che quell'uomo, in un qualche modo, mi ha fatto del male. Un giorno mi ha detto: mamma, non vedo l'ora che quell'uomo vada in prigione. Anche lei ha avuto paura: ma io stavo troppo male per accorgermene». Da poco Emanuela ha ripreso la forza di uscire per strada e camminare da sola. Prima era impossibile. Ha iniziato con l'aiuto di un cane che portava insieme a lei durante le uscite quotidiane.
La mamma di Emanuela ora sa cosa è successo. Ma il resto della famiglia e dei conoscenti ne sono tutt'ora all'oscuro. «Mio padre non resisterebbe a una simile notizia», afferma Emanuela. «So che il meglio per me è continuare a battermi ogni giorno affinché sia fatta giustizia. E continuerò».


* nome di fantasia


Il fardello legale

«Sporgere denuncia è stato come subire una seconda volta violenza», assicura Emanuela G. «Una sensazione condivisa da quasi ogni altra vittima di violenza», assicura Claudia Meyer di Solidarité Femmes (vedi box). Una sofferenza così grande che può affievolirsi almeno in parte se la denuncia sfocia in un processo prima, e in una condanna poi. Ma l'iter non è automatico. Secondo uno studio condotto nel 2005 nel nostro Paese appare che il 72 per cento delle denuncie non porta a una condanna bensì a un non luogo a procedere per insufficienza di prove o per versioni troppo divergenti tra vittima e presunto aggressore.
Emanuela ha sporto denuncia. Ma a che punto siamo con le pratiche? «Per due volte sono stata in polizia a rilasciare la mia dichiarazione. Per due volte, dalle 8.30 del mattino fino alla sera alle 17. Con un quarto d'ora di pausa. Due lunghe giornate in cui mi sono state fatte tutte le domande possibili. Terribile». Un avvocato Emanuela ce l'ha: è una donna esperta in casi di violenza. Ma in questo anno e mezzo lo ha visto si e no tre volte. A Emanuela di consigli non ne ha dati se non quello di riempire il modulo per ottenere un risarcimento per danni morali e fisici e di ritirare la sua denuncia. Emanuela ha avuto la fortuna di trovare un medico, anch'esso donna, che in questo anno e mezzo le è stata vicina, l'ha consigliata per quanto possibile, l'ha accompagnata in polizia e l'aiuta (linguisticamente, visto che lo svizzero tedesco non è proprio pane quotidiano per Emanuela) a cercare di contattare l'avvocato. Visto lo scarso appoggio del suo legale, Emanuela ha consegnato una prova, il suo vestito sporco (vedi sopra), direttamente al giudice ormai diversi mesi fa. Da allora: nessuna notizia. Quello che sa è che il suo presunto aggressore ha dichiarato alla polizia che con Emanuela ha avuto una relazione. Una storia che è durata qualche mese. Nega ogni forma di violenza. Afferma inoltre che il marito di Emanuela la picchiava: «molte volte l'ho vista con gli occhi neri», ha dichiarato.
Emanuela ora pretende il confronto diretto con Marcus, davanti al giudice così da chiarire una volta per tutte chi mente. Il suo avvocato ha continuato a spingere perché lei ritirasse la denuncia e si accontentasse del risarcimento: «È meglio per tutti», sostiene. Ma quando ha saputo che un giornale avrebbe raccontato la storia di Emanuela, il legale ha promesso di chiedere al giudice il confronto diretto. Auguri Emanuela.   


Un ruolo fondamentale ma....

In Svizzera, quale aiuto possono trovare le vittime di una violenza? Lo abbiamo chiesto a Claudia Meyer, responsabile del centro Solidarité Femmes di Friburgo e membro di comitato dell'organizzazione mantello per l'assistenza alle vittime di reati.
Dalla fine degli anni '70, un po' in tutto il paese si sono sviluppati i primi centri di accoglienza per le donne vittime di violenza coniugale in grado di offrire accoglienza, sicurezza e accompagnamento. Dal '93, con l'approvazione della Legge sull'aiuto alle persone vittime di infrazioni (Lavi) questi centri hanno ampliato il proprio mandato o hanno visto nascere altre consorelle il cui compito è assistere tutte le persone vittime di qualunque forma di violenza, all'interno o all'esterno della coppia, compresa  la violenza su minori.
Cosa potete offrire concretamente a una donna che chiede aiuto?
Nei centri Lavi, siamo tutti assistenti sociali con conoscenze giuridiche e psicologiche. Aiutiamo  le donne a comprendere cosa vuol dire sporgere denuncia, quali sono i loro diritti penali e civili. Spieghiamo che cos'è un trauma, spieghiamo che la loro reazione è normale e che quello che, invece, non è normale, è il gesto subito.
Esiste anche un aiuto materiale?
La Lavi comprende il cosiddetto "aiuto immediato", direttamente elargito dai centri Lavi. Ciò consiste, se lo desidera, in 14 giorni in una casa di accoglienza pagati, due o cinque ore di consultazione giuridica presso un avvocato, 5 ore di psicoterapia, un cambio di serratura in casa propria o anche un corso di autodifesa.
Non moltissimo per una persona confrontata a un trauma importante...
Se la vittima mostra bisogni che vanno oltre l'offerta di base, può fare richiesta – motivandola – di aiuti presso l'assistenza sociale o altri organi cantonali.
Quanto è difficile per una vittima rivolgersi a voi?
Non è un gesto automatico. Spesso avviene su consiglio di un amica/o, di una sorella o di un/a collega che per prima ci contatta per sapere cosa possiamo offrire. Oppure accade dopo una violenza più forte delle volte precedenti, dopo aver provato una situazione di insicurezza. Nel quadro della Lavi, inoltre, se la polizia interviene o se una donna sporge denuncia, se lei è d'accordo, il suo nome è segnalato al centro Lavi che prende contatto con la vittima. A volte, quando noi prendiamo contatto con loro, in un primo tempo dicono che va tutto bene, poi, dopo qualche settimana, sono loro stesse a richiamarci e chiederci aiuto.
Vi sono casi in cui la donna interrompe la sua lotta per la salvezza?
Vi sono casi di suicidio. Noi appena abbiamo avvisaglie di questo tipo di intenzione, la mettiamo in contatto con degli specialisti. Nella cura del trauma la forza di volontà della donna è molto importante ma non basta. Un altro elemento chiave è il modo in cui reagisce il suo entourage, sia privato, sia professionale. E se si sentono credute dagli avvocati e dal giudice.
Cosa potreste fare, come potrebbe migliorare la legge, per "fare di più"?
L'assistenza a più lungo termine. Senza dubbio il limite delle sedute e dell'assistenza offerta alle donne è un ostacolo al fare meglio e di più. Questo porta molte vittime a dovere risparmiare sulla terapia, l'assistenza e il percorso giuridico. Quando invece sappiamo che entrambe le cose richiedono molto tempo.    


Pubblicato il 

08.12.06

Edizione cartacea

Nessun articolo correlato