Fiscalità

Il modello della Fashion Valley è al capolinea. Per anni il Ticino ha approfittato delle entrate fiscali generate dalle multinazionali della moda che, tramite trucchetti contabili, hanno trasferito in Ticino utili da capogiro. Un sistema parassitario a cui la comunità internazionale ha detto basta. Gli statuti fiscali speciali dovranno sparire mentre da qualche mese è in vigore una legge federale che impone alle multinazionali di presentare una rendicontazione nazionale della propria attività. Questo proprio nell’ottica di impedire il trasferimento degli utili negli Stati fiscalmente più attrattivi. Insomma, con o senza gli sgravi previsti dalla riforma cantonale (mirati a imprese a forte capitalizzazione), gli introiti generati da queste pratiche sono destinati a diminuire in modo consistente.

Sette miliardi di franchi. Sono gli utili netti registrati dalla Luxury Goods International (Lgi) di Cadempino dal 2006 al 2016. A questa somma manca l’anno 2015: non è disponibile nei documenti del registro di commercio del Lussemburgo. È nel Granducato che ha sede la Kering Luxembourg, la società bucalettere che controlla il 100% della Lgi. Nelle ultime settimane, la società simbolo della Fashion Valley ticinese ha ottenuto suo malgrado un’ampia visibilità internazionale: l’autorevole Mediapart ha messo a nudo le pratiche di ottimizzazione fiscale che hanno permesso alla multinazionale Kering, un colosso da 38.000 impiegati, di trasferire alla sua discreta filiale di Cadempino circa il 70% dei suoi utili.


Secondo l’inchiesta giornalistica, Lgi ha negoziato con le autorità fiscali un’aliquota dell’8%. In Ticino, dal 2006 al 2016, la società avrebbe così pagato circa 560 milioni di franchi di tasse (in parte finite nelle casse del Cantone, in parte in quelle di alcuni Comuni; in parte minore alla Confederazione). È tanto oppure poco? La risposta è relativa: dipende da che punto si affronta la questione. È tanto, dal punto di vista del Ticino, dove Lgi è diventato il più importante contribuente del Cantone. È poco, troppo poco, se la questione la si affronta con lo sguardo di Milano o di Parigi. Le autorità italiane e francesi si stanno ormai chiedendo fino a che punto le pratiche fiscali utilizzate da Kering per eludere il loro fisco siano o meno lecite.
Il modello su cui si basa il gruppo è semplice: la Lgi di Cadempino acquista i prodotti ideati e lavorati in Italia e Francia per poi, dopo averli fatti transitare dai magazzini ticinesi, rivenderli alle boutique del mondo intero. Giocando sui prezzi di acquisto e di vendita ecco che gli utili, compresi quelli delle licenze dei marchi, sono convogliati nella filiale vicino a Lugano. Come spiegare altrimenti che i capannoni ticinesi del gruppo facciano registrare ogni anno utili netti vicino al miliardo di franchi, cosa da fare invidia alle principali aziende svizzere?


Il modello, semplice quanto efficace, lo si deve proprio alla Gucci. Prima ancora di essere acquistata da Kering, il marchio italiano si era insediato in Ticino per ingrassare le casse della sua filiale logistica. Era la seconda metà degli anni 90, quelli di Marina Masoni alla testa del Dipartimento finanze ed economia. Oggi alla testa di TicinoModa, la ministra liberale ha avuto un ruolo preponderante nel farsi promotrice di questo modello. Non è un caso, probabilmente, se la stessa Gucci e le altre società della moda arrivate in Ticino abbiano beneficiato dei consigli di specialisti fiscali vicini all’allora ministra. Non solo: un uomo di famiglia, Paolo Brenni (il cognato di Marina Masoni) entra subito – e ci resta fino a oggi – a far parte del Cda della Lgi. Va così in scena la narrazione entusiasta della Fashion Valley Ticino: sembra quasi di stare in un territorio abitato da illuminati stilisti e artigiani creatori. La realtà è diversa: il Ticino è piuttosto un (unico) grande centro logistico. La merce arriva e riparte soltanto per potere giustificare il trasferimento dei profitti. Nei depositi la merce è considerata “in transito” e beneficia di altri vantaggi garantiti dallo statuto di Deposito doganale aperto (Dda), sorta di punto franco esternalizzato nelle aziende. Il più grande Dda è proprio quello inaugurato dalla Lgi a Sant’Antonino nel 2014. Per chi critica questo modello, vuoi per il suo impatto sul territorio o per le pessime condizioni di lavoro, c’è subito pronta la risposta: l’indotto fiscale; vuoi mica sputarci sopra?


Ma il sistema che ha garantito questo indotto potrebbe avere le ore contate. Gli Stati dell’Ocse, tra cui la Svizzera, hanno siglato l’accordo Beps (Base Erosion and Profit Shifting) inteso a contrastare il trasferimento e la riduzione di utili a livello globale: «L’opzione fiscale delle multinazionali, di per sé legale ma qualificata come aggressiva, deve essere limitata» scrive l’amministrazione federale. Per le multinazionali, così come per le amministrazioni fiscali compiacenti, la festa sta ormai volgendo al termine.

Pubblicato il 

29.03.18