Ecco l'opposizione

I più vecchi ricordano lo sciopero per le pensioni, a fine anni Sessanta, che segnò l’inizio della più straordinaria stagione di lotta del movimento operaio e sindacale italiano, il ’69, lo Statuto dei lavoratori, i consigli di fabbrica, «il potere dev’essere operaio» gridato in tutte le piazze italiane. E ancora, l’unità con il movimento degli studenti esploso come in tutto il mondo nel ’68. Dopo la grande manifestazione del 23 marzo indetta dalla sola Cgil, tre milioni a Roma per dire no alla politica economica e sociale del governo che vuole riconsegnare ai padroni il diritto di licenziare senza giusta causa, la protesta ha finalmente raccolto il consenso di tutti i sindacati, Cisl e Uil, i Cobas, persino il sindacato postfascista Ugl: «L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non si tocca». L’Italia paralizzata Lo sciopero generale di martedì 16 ha paralizzato l’Italia, dalla capitale al nord industriale, dal sud precario e disoccupato fino alle ultime miniere del Sulcis e alle fabbriche d’armi in Val Trompia. Fermi i servizi, i trasporti, la sanità, i pompieri, le banche, le televisioni, pieni i cassonetti dell’immondizia. 13 milioni di lavoratori dipendenti hanno incrociato le braccia e a loro si sono aggiunti altri milioni di operai e impiegati invisibili, non censiti, in affitto, a tempo determinato, in nero. E i disoccupati, gli studenti, i giovani antiliberisti dei Social forum, le commesse dei supermercati e le centraliniste del call center. Persino i turisti americani e giapponesi si sono trovati insieme ai giornalisti in sciopero (qualche giornale di destra, essendo in sciopero le tipografie, ha tentato inutilmente di stampare in Ticino, alla fine hanno trovato un tipografo crumiro solo in provincia di Benevento), nei traboccanti cortei che hanno attraversato tutte le città italiane, in un clima forte, determinato, fiducioso: Berlusconi e il suo governo padronale, razzista e fascistoide possono anche far finta di niente, ripetere il mussoliniano «me ne frego», mostrare sicumera gridando «tireremo diritto», ma un colpo ben assestato alla nuca l’hanno preso. Ora l’Unto del Signore sa che dovrà fare i conti con un’opposizione sociale che non è intenzionata a fare sconti a nessuno. E l’opposizione politica, Ulivo e Rifondazione, devono fare uno scatto di reni, recuperare un progetto alternativo a quello liberista e una certa dose di autostima, offrire una rappresentanza a tutto quel che si muove nelle piazze, pena scomparire definitivamente e assumersi la responsabilità di una sconfitta politica e sociale che non avrebbe ragion d’essere e giustificazione. Berlusconi rimandato Già una volta Berlusconi è stato rimandato a casa dagli italiani che pure l’avevano votato, sia pure con il contributo dei traditori leghisti. Oggi il movimento ha la forza di ripetere il miracolo senza dover arruolare pentiti e ingoiare rospi. Senza fretta, le destre sono ancora forti, senza velleitarismi, ma con determinazione. L’articolo 18 – i lettori di questo giornale hanno seguito passo passo la rinascita del movimento in Italia, dai giorni bui della vittoria di Berlusconi e della dissoluzione dell’opposizione politica, ai fatti di luglio a Genova, alle lotte dei metalmeccanici, alla rottura dell’unità sindacale, al trionfo del segretario della Cgil Sergio Cofferati, ai girotondi, alle manifestazioni contro la privatizzazione della scuola e della sanità, alle proteste contro la guerra e il liberismo, al fianco dei palestinesi – è stato il grimaldello che ha consentito di riaprire una situazione che fino a pochi mesi fa sembrava bloccata. I lavoratori meno garantiti non sono caduti nel trabocchetto del governo: restituire ai padroni la libertà di licenziare per riaprire le assunzioni, meno diritti in cambio di più lavoro, fasce salariali al sud per far decollare l’occupazione, flessibilità, mobilità, liberismo, privatizzazioni, contro il presunto egoismo dei padri che per difendere antichi privilegi ammazzano il futuro dei figli. Non c’è caduto nessuno nel trappolone: «Padri e figli uniti nella lotta/ l’articolo 18 non si tocca», oltre al classico slogan dei decenni scorsi, «Da Torino al Meridione/ un solo grido occupazione». Avreste dovuto vederle, martedì, le piazze di Firenze e Palermo, di Napoli e Milano, di Oristano e Padova. Tutti i colori della vecchia classe operaia della Fiat e della Dalmine (poi scopri che quelle fabbriche sono tutt’altro che tradizionali, piene come sono di precariato e flessibilità, di figure sociali diverse e generazioni diverse, ognuna con diritti e garanzie diverse. Le fabbriche post-fordiste sembrano cantieri navali) e quelli del nuovo mondo del lavoro, i pensionati e i senza lavoro, gli immigrati che sono forza lavoro di riserva usati (come boomerang) nel tentativo di dividere, producendo dumping sociale. Martedì l’Italia sembrava un paese dove vale di nuovo la pena di vivere e lottare, un paese dove anche gli operai pensano che un mondo diverso è possibile, anzi necessario. La partita è solo all’inizio Ma la partita è appena iniziata. Oltre a quest’Italia rifiorita con la primavera ce n’è un’altra, ferita ma ancora carognescamente resistente. Un’ora dopo la fine delle manifestazioni il governo ha tentato un nuovo colpo di mano ponendo la fiducia nel voto su due punti nodali della politica economica e sociale: l’abolizione dell’intero Statuto dei lavoratori nelle aziende che emergano dal nero e dal sommerso e lo scudo fiscale che cancella il principio fondativo di qualsiasi stato democratico, liberale persino, cioè la progressività del prelievo fiscale (le tasse) in relazione al reddito. Mentre scriviamo lo scontro in parlamento è aperto, e in caso di sconfitta non resterà che ricorrere ai referendum per ripristinare lo status quo. A muso duro, Berlusconi, Bossi e Fini vogliono dimostrare ai tanti che li hanno votati e ora cominciano a tentennare nelle proprie certezze che il governo non farà passi indietro, che non si farà tentare dalle sirene e dalle finte colombe che volano nel suo campo e temono l’acutizzarsi dello scontro sociale. Le componenti democristiane della Casa delle libertà tentano di frenare, la destra sociale che alligna in An non vuole la rottura con il mondo del lavoro, i leghisti cercano di fottere diritti ai lavoratori ma solo a quelli del sud, per non vedersi precipitare addosso l’incazzatura dei lavoratori padani che ai loro diritti sono aggrappati come quelli comunisti. Poi ci sono i padroni. Venerdì e sabato scorsi settemila imprenditori si sono riuniti a Parma per l’assemblea annuale di Confindustria, un anno dopo l’incoronazione di Berlusconi e il bacio in bocca tra il presidente imprenditore di Arcore e il presidente dei padroni, il napoletano D’Amato, quello dalla faccia feroce, quello che un anno dopo chiede a Berlusconi il pagamento delle cambiali staccate 12 mesi prima. Il premier dei miracoli «Siete sulla strada giusta ma procedete con le riforme troppo timidamente e troppo lentamente», dicono gli imprenditori a un fluviale Berlusconi che si presenta ora come la nuova Thatcher e ora come Reagan, amico del social-liberista Blair e seguace di Machiavelli, allievo dell’economista Friedman e sodale di Bush junior, compagno di merenda di Putin. Proprio così, lo abbiamo visto con i nostri occhi e ascoltato con le nostre orecchie a Parma, il premier dei miracoli che promette di portare la Russia nella Nato quando persino la Nato è diventata superflua e ingombrante per la politica imperiale nordamericana. I padroni riuniti a Parma si sono spellati le mani per applaudire l’Uomo della Provvidenza che ha abolito la tassa di successione, le rogatorie, il conflitto d’interessi. Però sono divisi e molti non nascondono il fastidio per la linea golpista di D’Amato. Non perché siano più democratici, ma perché si sono ritrovati il conflitto in fabbrica dopo anni di tregua sociale garantita dai governi di centrosinistra, che liberalizzavano e privatizzavano ma senza esagerare, con il consenso (e il silenzio) dei sindacati, flessibilizzavano ma con gli ammortizzatori sociali. Abbiamo parlato con un po’ di questi imprenditori turbati, dai piccoli ai grandi, dal sciur Brambilla al dottor Benetton. Dicono che nel Libro bianco di Maroni e nelle deleghe di Maroni c’è tutta la flessibilità auspicabile, se quel pacchetto passasse il nuovo mercato del lavoro sarebbe il trionfo del liberismo, dunque perché accanirsi contro l’articolo 18, un nonnulla, una pinzillacchera direbbe Totò. Pretendendo di prendere tutto, compreso l’articolo 18, si rischia di restare con in mano un pugno di mosche e i sindacati ricompattati e il centrosinistra tentato di fare sul serio l’opposizione politica, quando si era riusciti così bene a isolare la Cgil (insieme a milioni di lavoratori). Qualcuno tra i coraggiosi capitani d’industria comincia a pensare che la linea soft di Massimo D’Alema, stregone capace di irretire l’opposizione sociale, neoliberismo mitigato da un po’ di welfare, produrrebbe risultati migliori. Meglio privatizzare la scuola piano piano, come la sanità, che pretendere tutto e subito. Ma oggi che le coscienze si sono risvegliate, non è detto che lo stregone D’Alema riuscirebbe ancora ad addormentarla. Tra qualche settimana Sergio Cofferati lascerà la Cgil (e non è un bene) e Claudio Sabattini la Fiom (idem), Cisl e Uil saranno nuovamente tentate dalle sirene di Arcore, ma non è detto che i milioni di uomini e donne, con e senza diritti, siano disponibili a tornare a casa come se nulla fosse successo. Anzi, è altamente improbabile.

Pubblicato il

19.04.2002 01:00
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