Prud'hommes è il nome del tribunale del lavoro di Losanna. Ma è anche il titolo del nuovo film di Stéphane Goël, che ha voluto vedere più da vicino quali sofferenze si celino dietro un'istanza ad un tribunale del lavoro. Lo abbiamo intervistato.

Stéphane Goël, nel suo film "Prud'hommes", presentato in agosto al Festival di Locarno e dal 13 ottobre nelle sale della Romandia, lei si pone come un osservatore distaccato, che tuttavia guarda ai conflitti nel mondo del lavoro dal punto di vista dei lavoratori. È stata una scelta deliberata fin dall'inizio?
Sì. Mi serviva un punto di osservazione per parlare della realtà del mondo del lavoro e delle sofferenze che esso genera. Ma per noi documentaristi è oggi molto difficile entrare nelle imprese: si ha sempre più a che fare con filtri quali i consulenti all'immagine, gli addetti alle pubbliche relazioni, gli esperti del marketing che ci vogliono dettare il modo in cui dovremmo fare il nostro mestiere. Da un punto di vista drammaturgico, dato che nel collettivo Climage non vogliamo fare del cinema militante ma dei racconti cinematografici, il tribunale ci è quindi parso il posto migliore, anche perché ci permetteva di esplicitare il confronto fra padroni e lavoratori. Ma è vero che per la nostra sensibilità abbiamo preferito accompaganre il percorso dei lavoratori che quello dei datori di lavoro. Anche perché in quasi tutti i casi al tribunale dei Prud'hommes sono i lavoratori che prendono la parola, che si attivano, i padroni vengono convocati e quindi reagiscono.
Avevate una scneggiatura o questo film di fatto lo avete scritto al montaggio?
Al montaggio, perché in documentari come questo tutto quel che ci si immagina prima delle riprese in realtà è destinato a non funzionare. All'inizio ad esempio ci eravamo imposti di filmare sempre e solo in tribunale, dato che la cancelleria non ci forniva in anticipo i nomi delle parti. Andavamo lì tutte le sere e filmavamo quel che succedeva. Ma non poteva funzionare: le parti, già tese e stressate, si trovavano di fronte ad un'équipe cinematografica che poco prima di entrare in aula chiedeva loro se era possibile filmarle. Così facendo negavamo una regola di base del mestiere di documentaristi, quella di costruire un legame con la persona che si filma per spiegarle quel che si sta facendo. Siamo quindi usciti dal tribunale per andare a cercare i nostri protagonisti più a monte, quando stavano per decidere di rivolgersi alla giustizia: nei sindacati, all'ispettorato del lavoro ecc… Abbiamo così passato più di un anno a filmare, fino ad aver raccolto oltre cento ore di girato. È a questo punto che abbiamo potuto cominciare a scrivere e a trovare una drammaturgia che non fosse solo un somma di piccoli fatti ma che fosse un vera e propria narrazione.
E il film funziona benissimo senza voce narrante e senza testi esplicativi.
È il merito della montatrice Loredana Cristelli, che ha saputo dare anche un lato pedagogico al film senza essere pedante, ma mantenendo anzi una certa leggerezza. D'altro lato ci sono ad esempio occasioni in cui il giudice spiega ad un parte che si è presentata senza avvocato il seguito della procedura o le conseguenze di una certa decisione. E questa spiegazione serve molto bene anche per il pubblico del film.
Ha detto che non voleva fare un film militante. Eppure voi di Climage nel vostro lavoro fate scelte con un chiaro profilo politico.
Interessarsi alle istituzioni, ai problemi di società, è per forza una scelta politica. Fare adesso questo genere di film è una scelta politica, perché fra qualche anno non sarà più possibile filmare liberamente nei tribunali e, in generale, nelle istituzioni. Oggi la giustizia ha una volontà di trasparenza temporanea. Ben presto anche l'apparato giudiziario capirà che l'immagine può essere orientata o asservita ai propri bisogni di comunicazione, e quindi tenterà di controllare il modo in cui noi cineasti lo filmiamo. Lo vediamo già con "La forteresse" di Fernand Melgar: se nel 2006 l'Ufficio federale della migrazione ci aveva dato l'autorizzazione a filmare liberamente nei centri di registrazione dei richiedenti l'asilo, oggi ci dice invece che questa autorizzazione non ce la darebbe più.
Ma perché non ha fatto un film militante?
Come con "La forteresse" abbiamo voluto giocare su un altro registro per toccare un pubblico diverso, non già sensibilizzato al problema, un pubblico che non andrebbe a vedere un film militante. Non volevamo chiuderci con i nostri film in un ghetto di sinistra. Anche perché tutti oggi possono essere toccati da uno dei problemi del mondo del lavoro che mostriamo nel film. Del resto nessuno dei nostri protagonisti era un militante politico o sindacale o si era mai impegnato in lotte di difesa dei suoi diritti sul posto di lavoro. Per questo crediamo che un pubblico il più ampio possibile deve poterlo vedere, magari accompagnato da una discussione in sala o da un approfondimento. La maggior parte di noi si accorge che c'è una giustizia sul lavoro soltanto quando è coinvolta in un contenzioso con il suo datore di lavoro e finisce in tribunale. Non sarebbe male rendersene conto prima. Per imparare a difendersi e, magari, chiedersi se forme di difesa collettiva non possano essere utili.
Come è stato il vostro rapporto con i giudici del tribunale dei Prud'hommes?
Su 18 giudici del tribunale di Losanna, solo uno ha rifiutato di farsi filmare. Penso che avessero un desiderio sincero di far conoscere l'istituzione. In un film come questo la figura del giudice è centrale: mentre se filmo un processo penale vedo il male nel volto dell'imputato, e la situazione come spettatore mi è subito chiara, ecco che ai Prud'hommes sono due punti di vista a confrontarsi ed è spesso il volto stesso del giudice che ci dice che la situazione dal punto di vista giuridico non è così chiara. Emergono allora, proprio grazie alla figura del giudice, altre priorità: il riconoscimento della dignità del lavoratore, ad esempio, o il bisogno di esprimere o di sentirsi dire cose molto semplici, come una parola di scuse o un riconoscimento verbale della validità del proprio lavoro. Tutti coloro che abbiamo filmato ci hanno detto che ciò che li ha portati in tribunale non è il denaro, ma altro. E molti di loro sono delusi quando partono magari con qualche migliaio di franchi, ma quelle scuse, quel riconoscimento tanto attesi non sono arrivati.
Riappianare i rapporti umani è dunque più importante che fare giustizia?
È la procedura stessa, facilitata e priva di formalismi, che incita a ricorrere ai Prud'hommes, proprio in quest'ottica. Nella prima udienza, detta di conciliazione, si trovano solo le parti e il giudice, con l'obiettivo di una composizione bonale della vertenza. Siccome i casi da trattare sono molti e le corti sono oberate di lavoro, per ogni udienza ci sono solo 45 minuti a disposizione: ecco che quindi i giudici tendono a fare pressione affinché si arrivi ad un accordo veloce fra le parti, senza curarsi troppo di fare materialmente giustizia. Lo scopo è di evitare il più possibile di arrivare alla seconda udienza, quella in cui si producono le prove e alla fine della quale, se le parti non si accordano, il giudice deve emettere una sentenza. Perché se la procedura arriva a questo stadio, essa costa molto di più allo Stato. E sappiamo quanto anche i giudici siano sotto pressione per contenere i costi.
Il suo film aveva lo scopo di parlare del mondo del lavoro nell'era della globalizzazione. Alla fine vediamo molti conflitti interpersonali spesso banali, che potrebbero benissimo esserci anche senza globalizzazione.
Ai Prud'hommes il valore litigiso massimo è di 30 mila franchi. Questo significa che impiegati di banca e altri dipendenti con salari elevati finiranno con ogni probabilità in altre corti. Il tribunale dei Prud'hommes si rivolge essenzialmente a chi lavora come operaio, come commessa, come artigiano ecc… Inoltre ritroviamo qui soprattutto giovani e stranieri che lavorano quasi sempre in piccole imprese. Gli altri, in particolare coloro che lavorano in grandi ditte dove la globalizzazione è più direttamente visibile, hanno altri strumenti per farsi valere, a cominciare dal sindacato e dalle misure collettive di lotta. D'altro canto i datori di lavoro, specie in imprese piccole, sono spesso loro stessi le prime vittime della liberalizzazione e dell'imbarbarimento dei rapporti economici. E riversano poi, spesso non vedendo altre soluzioni, gli stessi problemi sui loro dipendenti. Qui, indirettamente, la globalizzazione la si vede.
Qual è la sua impressione sul mondo del lavoro oggi in Svizzera?
In questo paese la pace del lavoro ha pesato come una cappa di piombo sulla realtà che vive quotidianamente una gran quantità di persone. Ne è rimasto un malessere diffuso che attraversa ampie fasce della società, ed è questo malessere che ho voluto mostrare nel film. Non si tratta di sfruttamenti terrificanti, di abusi orribili, ma di piccole vessazioni quotidiane. Ed è una realtà immensa, molto più grande di quanto potremmo immaginare. E che pesa ancora di più per lo sgretolarsi delle reti di solidarietà fra le persone, cosa che determina una grande solitudine.


Climage, fra cinema e impegno sociale

Il collettivo Climage di Losanna è noto per i film dal forte impegno sociale e civile che produce. Ultimo esempio di maggior successo è "La forteresse" di Fernand Melgar, che due anni fa ha vinto il Pardo d'oro del Concorso dei Cineasti del presente al Festival di Locarno, aprendo nel contempo un intenso dibattito sul diritto d'asilo in Svizzera dopo gli ultimi inasprimenti introdotti nella legge. È ora la volta di "Prud'hommes", un documentario di Stéphane Goël, pure lui da tempo attivo nel collettivo Climage (di lui si ricorda "Que viva Mauricio Demierre" del 2006, ma anche il lavoro di montaggio sui documentari di molti affermati autori romandi, a cominciare da Jacqueline Veuve). "Prud'hommes" è un film sull'omonimo tribunale di Losanna che giudica controversie di diritto del lavoro. Dopo l'anteprima al Festival di Locarno di quest'anno, uscirà nelle sale della Svizzera francese il prossimo 13 ottobre. È, ad un primo grado di lettura, un'analisi del funzionamento di un'istituzione come un tribunale del lavoro, simile stilisticamente al celeberrimo "Mais im Bundeshaus" di Jean-Stéphane Bron. Ma "Prud'hommes" si rivela in realtà una cartina di tornasole del mondo del lavoro di oggi, delle sue incomprensioni, delle sue sopraffazioni, dei suoi conflitti. E ha il merito di far emergere, pur in un apparente distacco, la profonda e ricca umanità che popola il mondo del lavoro svizzero.

Pubblicato il 

08.10.10

Edizione cartacea

Nessun articolo correlato