Hafid Ouardiri, per numerosi anni portavoce della Grande Moschea e della Fondazione culturale di Ginevra, fu licenziato poco più di un anno fa, (vedi area n.10, 2007) insieme al direttore e altri due colleghi - ufficialmente – per discordanza di gestione con la nuova direzione. Una direzione wahhabita, dunque più ortodossa, che si è opposta all'apertura, al dialogo con la società, con la città sul Lemano promossi da Ouardiri. A un anno di distanza che ne è di tutta questa storia e dei suoi protagonisti? area ha nuovamente incontrato Hafid Ouardiri – ora direttore della Fondation de l'Entreconnaissance – per sapere cosa è successo in questi mesi e conoscere i progetti futuri della comunità ginevrina.

Lo scorso anno lei fu licenziato insieme ad altri tre collaboratori della Moschea, tra cui il direttore. Che ne è oggi di queste persone?
Da un anno ormai sono tutte iscritte alla disoccupazione e seguono dei corsi di formazione per cercare di essere reintegrate nel mondo del lavoro. Questa esperienza le ha inevitabilmente segnate a livello morale e personale ma cercano di andare avanti. Con loro ho dei contatti permanenti perché insieme portiamo avanti la causa che si oppone al licenziamento.
Oggi lei e i suoi ex colleghi frequentate ancora la Moschea?
È una buona domanda questa. Malgrado quello che abbiamo vissuto lo scorso anno tra noi e la Moschea non c'è una rottura perché è con questa Moschea che abbiamo iniziato a muovere i nostri passi, a promuovere il dialogo con la società che ci circonda. Siamo stati noi che in questi trent'anni di vita alla Moschea abbiamo fatto in modo che questo luogo si trasformasse in luogo pubblico aperto a tutti, che fosse riconosciuto dalle autorità politiche, dalla società e farle avere l'influenza che oggi ha. Questo luogo è parte di me; abbandonarlo è impossibile. E lo stesso vale per i miei tre ex colleghi.
Lo scorso anno è stato detto molto sulle ragioni del vostro licenziamento. A un anno di distanza avete potuto chiarirvi con la nuova direzione?
Con i nuovi vertici della Moschea non abbiamo nessun tipo di relazione. Anche perché la Moschea ora non ha una vera struttura chiara, con una direzione. Ogni giorno si promette una struttura amministrativa ma poi non se ne fa mai nulla….
Come può funzionare una Moschea senza una struttura?
La Moschea funziona attraverso sé stessa, attraverso le persone che la frequentano per la preghiera e la fanno così vivere.
Nei suoi trent'anni di vita professionale alla Moschea lei ha sempre puntato moltissimo sulla promozione del dialogo interno ma soprattutto esterno alla Moschea. Che ne è oggi di tutto questo?
Non voglio giudicare la Moschea dopo la mia partenza. Ma è palese, discutendo con gli altri frequentatori del centro, che vi è un vuoto di rappresentanza, un vuoto di comunicazione sia interno, sia esterno. Del resto fu proprio l'accusa di un'eccessiva apertura che portò al mio licenziamento….
Una mancanza che ha conseguenze negative su tutta la comunità distruggendo l'apertura che avevate costruito negli anni e creare potenziali problemi…
In realtà dopo la mia partenza ho continuato il mio lavoro, il mio obiettivo di apertura, di dialogo con tutta la società attraverso la fondazione che dirigo e continuando a collaborare con chi ho conosciuto alla Moschea e beneficiando della fiducia costruita negli anni con le autorità locali, con le istituzioni. Continuo a lavorare con le stesse persone di prima. La sola differenza è che oggi sono fuori dalla Moschea. E in un certo senso è un vantaggio perché sono più libero.
In che senso?
Prima ero sotto gli occhi di tutti, ora sono immerso nella società e dunque più libero di agire; essere immerso totalmente nella società mi permette oggi di comprenderla meglio, di conoscere il suo funzionamento.
Un anno fa lei si era posto come obiettivo quello di migliorare l'integrazione dei musulmani nella società con le autorità locali e nazionali. Che ne è di questo obiettivo?
Ho iniziato a scrivere la storia della comunità musulmana installata a Ginevra da molto tempo. Si tratta di riscrivere le memorie di un popolo arrivato a Ginevra come "immigrato" e poi pian piano, generazione dopo generazione trasformatosi in "cittadino". Il senso di questo lavoro è importante: più grande e dettagliata sarà la "memoria del passato", maggiore sarà il grado di accettazione della nostra comunità nella società che ci accoglie.
Inoltre in questo ultimo anno la fondazione ha trovato una sua sede, un luogo in cui accogliere tutti, indipendentemente dall'origine e dalla religione, per dialogare, costruire un "dibattito contraddittorio" attraverso cui conoscere le differenze ma anche le similitudini più nascoste. Attualmente con il centro ecumenico delle Chiese e la Fondazione Racines et Sources organizziamo un seminario in collaborazione sul tema "Che cosa può portare la religione a un mondo che si sta globalizzando?" così da comprendere il mondo attraverso la religione.
E a livello politico il suo obiettivo di migliorare l'integrazione avanza?
I politici cercano degli interlocutori credibili. Per fare questo noi musulmani dobbiamo imparare ad uscire dall'ombra  e utilizzare gli strumenti che la democrazia e la libertà del luogo in cui viviamo ci offrono mettendoci ufficialmente a disposizione per portare avanti le nostre rivendicazioni e dialogare con le autorità locali costruendo una sorta di "Islam suisse". Stando nell'ombra non otterremo nulla, non ci sarà dialogo  ma solo ulteriori incomprensioni…
Nelle scorse settimane una giovane proveniente dai Balcani si è vista rifiutare uno stage dall'ospedale universitario di Ginevra perché non voleva togliersi il velo durante le ore di lavoro. Qual è la sua opinione?
Questo è un fatto di società che implica la comprensione del senso di secolarizzazione. È necessario un compromesso tra le parti in causa, un "compromesso intelligente": gli uni devono evitare gli estremismi, gli altri devono evitare di volere l'assimilazione ad ogni costo. Altrimenti si perdono tasselli della società e si creano nuovi ostacoli. Per arrivare a tanto occorre costruire la fiducia, evitare le strumentalizzazioni e aprire il dibattito. L'idea di un "mediatore" come strumento della città, della politica, della società civile è, ad esempio, una buona via da seguire…
Ma i politici sono aperti al dialogo?
Sono aperti a questo tipo di dialogo perché vogliono evitare che gli estremisti s'impongano sulla scena. Ma per ora sono più ascoltatori che attori, preferendo osservare come e quanto ci stiamo responsabilizzando.
Torniamo alla vertenza con la nuova dirigenza della Moschea. Prima lei ha accennato a una causa in corso…
Quello che abbiamo vissuto non è un comportamento degno di questa società e ancor meno di una Moschea. Non provo propriamente amarezza ma io i miei ex colleghi stiamo subendo una situazione spiacevole. Quest'anno non abbiamo agito preferendo lasciare il tempo a chi ci ha licenziato di rivedere la propria decisione o quantomeno di risolvere la situazione in modo cortese. Questo non è stato possibile, in parte anche a causa dell'assenza di una vera e propria struttura dirigente. Così in questi giorni abbiamo deciso di agire per riparare il torto subìto e rimediare alla decisione arbitraria. Da un lato abbiamo già inoltrato una causa civile presso il Tribunale del lavoro. Dall'altro – a settembre – agiremo anche sul piano penale con una causa contro il direttore della Moschea che lo scorso anno ha preso la sua decisione senza consultarci; dall'altro contro la Lega islamica mondiale (Lim) che ha invitato questo direttore con idee contrarie all'apertura ignorando quanto fatto fino ad allora. Abbiamo cercato di chiarirci ma alle nostre lettere la Lega islamica non ha mai dato risposta. L'idea – suggeritaci dal nostro avvocato e dal sindacato Unia che segue da un anno la nostra situazione – è di arrivare a rivedere lo statuto della fondazione. E questo al di là del nostro caso specifico ma proprio con lo scopo di correggere la relazione che si sta costruendo tra la Moschea e la società per evitare chiusure reciproche e problemi di convivenza.

Pubblicato il 

11.07.08

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