Come in una partita

La partita è appena cominciata ma oltre ad annunciarsi assai aspra, rischia anche di essere sospesa o quantomeno di andare ben oltre il novantesimo minuto. Stati Uniti e America del Nord (Canada e Messico), Unione Europea, America Latina nel suo complesso e nei suoi singoli paesi, a cominciare dai più grossi in tutti i sensi: Brasile e Messico. Nella sostanza i due giocatori principali sono gli Stati Uniti da un lato e l’Unione Europea dall’altro. In palio c’è la conquista dell’America Latina, con il suo grande mercato, le sue infinite ricchezze naturali – minerarie, petrolifere, agricole: basta pensare alla bio-diversità racchiusa nell’Amazzonia – che cerca di non farsi mangiare da uno o dall’altro gigante (specialmente da uno), che chiede un posto al sole per uscire dal ciclo perverso delle crisi sociali, economiche e politiche. Gli Stati Uniti propongono – o per meglio dire impongono – un’estensione continentale del Nafta, l’Accordo di libero scambio che dal ’94 li lega al Canada e al Messico, facendo pesare la contiguità territoriale del “cortile di casa” (una sorta di riproposizione in chiave liberista della Dottrina Monroe) e l’interventismo storico a sud del Rio Grande (che si chiami politica “del buon vicinato” o “del bastone”). L’Unione Europea (Ue) risponde con una proposta di accordo di libero scambio con il Mercosud (per il momento) facendo pesare i comuni legami storici del tempo della Conquista e della colonia spagnola (e portoghese) e delle successive ondate migratorie (iberica e italiana in particolare e più in generale europee). Ma facendo pesare anche altri due fatti. Uno è che, soprattutto grazie alla Re-conquista spagnola di questo ultimo decennio di liberalizzazioni-privatizzazioni, la Ue è già il secondo partner commerciale (e per investimenti) dell’America Latina e il primo del Mercosud. L’altro è che – dopo la fine della Guerra fredda e l’inizio di una Guerra al terrorismo che si annuncia infinita – con il rinnovato unilateralismo imperiale degli Stati Uniti, l’America Latina rischia di ritrovarsi nella più completa balìa di Washington. Dominato e succube sul piano economico e politico chissà per quanti decenni ancora. Ma ciascuno dei due giocatori principali della partita gioca con carte truccate. Gli Stati Uniti parlano bene di liberismo ma poi razzolano male e Bush mantiene antiche barriere doganali e anzi ne alza delle nuove a protezione degli interessi nord-americani. L’Ue offre un modello apparentemente meno brutale e più sociale ma poi lo smentisce nei fatti sia con il persistente protezionismo in favore della politica agricola e contro le importazioni agricole dell’America Latina sia con l’allargamento ai paesi ex-socialisti dell’Europa dell’Est che – nonostante le smentite ufficiali – tolgono importanza e risorse all’America Latina. L’attentato alle Torri gemelle newyorkesi e la crisi economica statunitense e mondiale hanno ridisegnato la mappa delle priorità geo-politiche dei giocatori impegnati nella partita. Uno degli effetti principali è il riemergere di leader che non sembrano più così sensibili al Consenso di Washington in politica e ai diktat liberisti-privatizzatori del Fondo Monetario Internazionale in economia. Come Lula da Silva in Brasile. Il cavallo pazzo Hugo Chavez in Venezuela prima era una anomalia assoluta, dopo un quindicennio di presidenti fatti con il marchio di fabbrica Usa-Fmi, ma la crisi economica e sociale dell’America Latina ha portato a un rifiuto secco e quasi generalizzato di quel modello. Quella dell’ultimo decennio del secolo scorso è stata per l’America Latina “un'altra decade perduta”. Stando così le cose è evidente perché Lula, in campagna elettorale, rifiutasse l’ipotesi dell’Alca, “nei termini in cui essa si presenta ora”, definendola “un’annessione”. Per di più di fronte a “interlocutori” come Stati Uniti e Unione Europea che esigono dagli “altri” l’apertura di economie, la liberalizzazione dei commerci, la protezione dei brevetti, l’abbattimento di tariffe e barriere doganali, la fine dei sussidi alle produzioni e esportazioni, il castigo del dumping – in nome della libertà economica e del libero mercato – ma poi sovvenzionano le loro industrie e i loro esportatori, impongono i loro brevetti (ad esempio sui medicinali destinati a combattere la peste nera dei nostri giorni, l’Aids), chiudono i loro mercati, fissano rigide quote di importazione sui prodotti dei paesi in (eterna) via di sviluppo. Tanto per dire il presidente Bush ha imposto quest’anno sovratasse doganali sull’acciaio brasiliano – e l’Unione Europea ha poi “dovuto” seguirne l’esempio –, con tanti saluti al nuovo round avviato a Doha (Qatar) dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto). Tanto per dire Washington applica una tariffa doganale media del 45 percento ai prodotti brasiliani contro il 14 percento medio imposto dal Brasile ai prodotti made in Usa. Tanto per dire il succo d’arance di cui il Brasile è il principale esportatore al mondo e negli Stati Uniti (che sono il più grande consumatore) è gravato di un balzello del 62 percento mentre la tariffa media sui prodotti americani è del 10 percento. Tanto per dire il miele di cui l’Argentina è il principale produttore al mondo non può entrare negli Usa per “ragioni sanitarie”. Tanto per dire la carne e il grano di cui Argentina, Brasile, Uruguay sono grandi produttori non possono entrare sui mercati europei in quanto la Ue, sotto la spinta della Francia, avversaria dell’unilateralismo degli Stati Uniti, rifiuta di mettere mano alla Pac, la sovvenzionatissima Politica agricola comune. Tanto per dire sempre Bush ha proposto e il Congresso Usa ha approvato una “legge-mostro” che garantisce 180 miliardi di dollari di sovvenzione ai farmers statunitensi nei prossimi dieci anni. Tanto per dire non Lula ma la Fiesp, la poderosa federazione degli industriali di San Paolo, in un suo studio calcola che il Brasile perderebbe un miliardo di dollari l’anno nel caso che a partire dal primo gennaio del 2006 entrasse in vigore la tariffa zero proposta dall’Alca. Gli esempi potrebbero continuare. Anche se il modello americano-europeo è per molti versi analogo, ed egualmente iniquo, l’unica speranza dell’America Latina (ma il discorso va ben oltre l’America Latina) è diversificare i tavoli senza puntare tutte le fiches su uno solo. I tre mercati americani Nafta L’Accordo di Libero Commercio dell’America del Nord lega dal primo gennaio 1994 Stati Uniti, Canada e Messico. È un mercato da 400 milioni di abitanti con un Pil complessivo di 11 mila 330 miliardi di dollari (di cui 10'020 degli Usa). In 9 anni l’interscambio fra Stati Uniti e Messico si è triplicato, fino ai 253 miliardi di dollari nel 2000 e i 306 miliardi del 2001. Ma ha anche aggravato il gap fra il nord “ricco” e il sud povero e non ha intaccato i livelli di povertà in cui si trova ancora il 53 percento dei 100 milioni di messicani. L’85 percento delle esportazioni messicane va negli Usa ma quasi la loro metà è costituita dalle maquiladoras, le industrie che assemblano prodotti provenienti dagli Stati Uniti e che là ritornano. Le tariffe doganali fra i tre paesi dovrebbero raggiungere il livello zero a partire dal 2009. Alca L’Accordo di Libero Commercio delle Americhe nasce da una “idea” di Bush padre nel ’92, poi ripresa da Clinton e ora da Bush figlio. Un’area di integrazione commerciale che va dall’Alasca alla Terra del Fuoco, o addirittura dall’Artico all’Antartide, e toccherà tutti i 34 paesi del continente americano – ad eccezione di Cuba –, con 800 milioni di abitanti, un Pil complessivo intorno ai 13 mila miliardi di dollari e un volume di scambi commerciali di quasi 3 mila 500 miliardi di dollari. I negoziati dovrebbero essere conclusi entro il 2004 e l’Accordo dovrebbe entrare in vigore, secondo i desideri degli Stati Uniti, a partire dal 2005, quando le tariffe doganali dovrebbero essere azzerate. Mercosud Nato con il Trattato di Asuncion del marzo 1991, il mercato Economico del Sud è costituito da Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay come membri a titolo pieno più Cile e Bolivia come paesi associati. L’obiettivo è creare una zona di libero commercio, poi una moneta unica (che non sia il dollaro). Il modello a più lunga scadenza è quello dell’Unione Europea e della sua integrazione. È un mercato da quasi 250 milioni di persone con un Prodotto Interno Lordo (Pil) complessivo di mille miliardi di dollari/euro. È entrato in vigore nel 1995. L’applicazione totale dovrebbe iniziare a partire dal 2006 quando tutti i beni e servizi prodotti dai paesi membri dovrebbero poter circolare liberamente al suo interno. Fino ad allora i 4 paesi più 2 adotteranno un'unica Tariffa esterna comune (Tec) per lo scambio fra il Mercosud e il resto del mondo. Il Mercosud sta trattando come blocco unico un accordo di libero scambio con l’Unione Europea e con la Comunità Andina di Nazioni (Perù, Ecuador, Colombia e Venezuela) e vorrebbe fare lo stesso nei negoziati per l’Alca. Le ripetute crisi dell’America Latina lo hanno tuttavia portato all’orlo della paralisi.

Pubblicato il

13.12.2002 03:30
Maurizio Matteuzzi
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