Cineserie

Sono stato per la prima volta in Cina nel 1989, qualche settimana prima dei fatti di Tienanmen. Allora nelle strade di Pechino dominavano le biciclette e parecchi passanti erano ancora vestiti seguendo i dettami del “Mao look”. La seconda volta ci sono andato all’inizio di questo secolo. In poco più di 10 anni il cambiamento è stato enorme. Di quel viaggio ricordo un aneddoto che mi sembra qui particolarmente importante: leggendo la versione inglese del quotidiano del partito comunista, scoprii con mia sorpresa, un intenso dibattito sulla questione “possono i milionari diventare membri del partito comunista?”.


Da allora mi sono recato quasi annualmente, una o due volte, in Cina, sempre per ragioni professionali, ma approfittando ogni tanto anche di incontri o discussioni politiche. Un incontro particolarmente interessante l’ho avuto quando ero ancora parlamentare (e quindi l’ambasciatore svizzero mi aveva aiutato ad organizzarlo) con un alto responsabile del Pcc. Di fronte ai miei dubbi sul fatto che il paese potesse ancora chiamarsi comunista, mi dovetti sorbire una lunga conferenza, il cui succo era il seguente: dopo Mao, mi spiegò l’alto funzionario, abbiamo capito che è impossibile costruire il socialismo nella povertà. Per cui stiamo accumulando ricchezze, che poi ridistribuiremo, ritornando a costruire passo a passo il socialismo. Allora pensai che era del puro politichese. Nel frattempo però la Cina, suscitando le ire delle élites occidentali, ha rinazionalizzato molte istituzioni prima privatizzate, ha fissato per legge che ogni anno il salario minimo deve crescere più dell’aumento della produttività, ha enormemente aumentato il welfare. Ed è il paese al mondo con più scioperi, che spesso si concludono con la vittoria delle maestranze.


Questa volta sono stato dapprima a Tianjin, per un simposio oncologico co-organizzato da un’università americana e dall’Istituto oncologico della Svizzera italiana: e lo cito con piacere in questo momento dove la polemica tutta cantonticinese sul Cardiocentro sta assumendo aspetti sempre più tragicomici. Ai tempi del dominio europeo, Tianjin, da sempre il porto di Pechino, era un possedimento italiano e ancora oggi ce ne sono chiare vestigia. Alcuni anni fa in un cinema situato in una piazza in perfetto stile veneziano potei vedere “L’ultimo imperatore” di Bertolucci in versione originale italiana. Da questa metropoli, che conta ben 12 milioni di abitanti, mi sono spostato in poco più di 6 ore con uno dei magnifici treni superveloci cinesi ad Harbin, capitale della Manciuria, situata 1.200 chilometri a nord e poco al di sotto del confine russo. Questa città porta chiari segni dell’influenza slava, tra l’altro con parecchie chiese ortodosse. La gente è anche spesso più alta e ha un aspetto più piacevole, per noi occidentali, che nel resto della Cina.

 

Ma ad impressionarmi è stato soprattutto, nel mezzo di questa città di oltre 10 milioni di abitanti, l’enorme parco Stalin (sì, si chiama proprio ancora così) dove molta gente si divertiva a giocare a scacchi, a tutta una serie di giochi locali, a suonare, ballare: un vero spettacolo. Ho addirittura incontrato un nutrito gruppo di persone di mezza età che, a pugno chiuso, cantavano a squarciagola canzoni rivoluzionarie, che i miei accompagnatori mi hanno detto essere legate soprattutto all’epopea dell’intervento cinese nella guerra in Corea. Tra una decina di giorni, dopo essere stato in Kirghizistan per il progetto ticinese di aiuto al trattamento dei tumori del seno, volerò nel vicino Sinkiang cinese, quindi all’altra estremità, rispetto ad Harbin, della Cina, per visitare un paio dei centri principali della vecchia Via della seta. Ma di questo scriverò la prossima volta, così da poter commentare anche l’attuale faraonico progetto del presidente cinese per una nuova Via della seta.

Pubblicato il

27.09.2018 13:26
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