Il presidente americano George Bush e il presidente venezuelano Hugo Chavez sono fatti per detestarsi. E si detestano. Bush e i suoi hanno già provato, nell’aprile del 2002, a disfarsi del cavallo pazzo venezuelano con un golpe, in cui era coinvolto l’allora ambasciatore Usa a Caracas Charles Shapiro, mascherato da iniziativa della “società civile”. Ma il golpe durò poco più di 48 ore e Chavez tornò. Più forte di prima. Ci hanno riprovato sostenendo politicamente ed economicamente lo sciopero petrolifero che per due mesi, fra la fine del 2002 e l’inizio del 2003, paralizzò il paese e soprattutto l’unica sua fonte di introiti: il petrolio. Ma Chavez rispose per le rime e uscì anche da quella trappola. Più forte di prima perché colse la palla al balzo per licenziare 18 mila dipendenti della Pdvsa, la poderosa Petroleos de Venezuela, che si era sempre mossa come una sorta di Stato nello Stato, e poté finalmente mettere le mani sulla cassa. Ci hanno provato ancora, nell’agosto del 2004, quando l’opposizione riuscì a mettere insieme le firme necessarie per convocare il referendum “revocatorio” previsto dalla costituzione chavista del 2000 alla metà del mandato presidenziale. Ma fallirono ancora una volta perché la masse popolari povere si riversarono a difendere la “rivoluzione bolivariana” e l’uomo che ai loro occhi la incarna: l’ex-colonnello dei parà Hugo Chavez Frias. Da allora, metà del 2004, la situazione è radicalmente cambiata, dentro e fuori il Venezuela. L’opposizione finora non si è ripresa ed è a pezzi. Anche i media scritti e televisivi, che in luogo dei vecchi e squalificati partiti, avevano preso le redini dell’anti-chavismo militante con campagne di una violenza inaudita, sembrano essersi in qualche misura rassegnati. Anche perché sul finire del 2004 l’Assemblea nazionale ha approvato una legge sui media assai controversa (e molto criticata all’estero) che a seconda dei punti di vista o mette loro la museruola o li costringe a essere più responsabili. Il carburante nel motore di questo cambio così vistoso è stato ancora una volta il petrolio. Gli Stati Uniti di Bush hanno paura di una “nuova Cuba”, che a differenza della prima, galleggia sul petrolio. Il “Venezuela Saudita” è il quinto esportatore mondiale ma il quarto o il terzo fornitore di greggio del mercato Usa, che riceve il 60 per cento delle esportazioni venezuelane. Per cui, dopo essersi scottati nel 2002 e con le cose che vanno come vanno in Iraq, devono muoversi con i piedi di piombo. La manna petrolifera è stata brandita da Chavez come un’arma. Ma usata con grande acume politico. Era molto criticato per il fatto di “regalare” 50 mila barili al giorno di greggio, poi divenuti 90 mila, al suo grande mentore Fidel Castro (in realtà nell’ambito di uno scambio “doctors-for-oil”, 14 mila medici cubani, più personale in altri ambiti per un totale di 35 mila “internazionalisti”). Chavez ha allora intrapreso una politica petrolifera a raggio larghissimo, mondiale. Ha stretto accordi in campo energetico con la Cina e con l’Iran – una mossa anch’essa destinata a disgustare Washington – e, calato nel suo personaggio del Libertador Bolivar e del suo grande sogno di unificazione dell’America Latina, con i paesi del Cono Sud e con i paesini dei Caraibi. La Petrosur, con Argentina e Brasile, la Petrocaribe, con 13 paesi caraibici (dalla Giamaica alla Repubblica Dominicana, da Antigua a Granada), sono due dei piani di Chavez per contrastare “la potenza imperialista” nord-americana fin nel “cortile di casa”. L’ultimo colpo di genio è stato l’accordo con i sandinisti del Nicaragua che, all’opposizione del presidente conservatore Enrique Bolanos, nelle città e province dove governano avranno il petrolio venezuelano quasi gratis. Poi ancora petrolio all’Uruguay del presidente socialista Tabaré Vazquez e all’Ecuador che, qualche settimana fa, ha dovuto temporaneamente sospendere le sue esportazioni per via di uno sciopero dei lavoratori contro la transnazionali nelle province amazzoniche. Non basta. La grandi compagnie petrolifere, dopo aver capito che Chavez sarebbe durato, hanno fatto la fila per rinnovare le concessioni e i contratti. Quelle Usa in testa – Exxon, Chevron, Texaco, Mobil, Conoco... – ma non solo: la francese Total, la spagnola Repsol... Last but not least, Chavez ha usato la manna petrolifera per mettere in pratica la sua “rivoluzione bolivariana”. Dal 2004 le spese sociali sono aumentate del 60 per cento e la Pdvsa, che prima godeva di un’autonomia finanziaria quasi totale, deve ora versare quasi 4 miliardi di dollari l’anno a “progetti sociali”. L’80 per cento degli introiti in valuta e la metà del bilancio statale del Venezuela provengono dal petrolio. La legge finanziaria del 2004 era stata fatta sulla base di un prezzo virtuale di 16 dollari il barile. Invece nel 2004 quello reale è stato di 32 dollari. Superiore ai 25 dollari del 2003, ai 21 del 2002, ai 20 del 2001. Quest’anno il Venezuela ha incassato 20 milioni di dollari al giorno in proventi petroliferi. Chavez ringrazia Bush e le sue guerre preventive per il prezzo alle stelle dell’oro nero e, grazie alla stabilità politica, può esibire dopo due anni terribili (il Pil a meno 8 per cento nel 2002 e 2003), uno stratosferico più 18 per cento nel 2004 confermato quest’anno dal 9-11 per cento previsto. Per questo Bush deve andarci cauto. Finora Chavez non ha mai brandito l’arma petrolifera contro gli Stati Uniti. Ma con il deteriorarsi dei rapporti bilaterali in quest’ultimo anno, nell’agosto scorso per la prima volta ha minacciato: attenti perché “il petrolio venezuelano invece che andare negli Usa potrebbe andare altrove”. I compratori certo non mancano. Uno zimbello da temere Fino a qualche tempo fa il presidente Chavez era guardato con un misto di ironia e di sufficienza. Le sue “sparate” dialettiche, i suoi eccessi verbali, i suoi sogni “bolivariani” forse erano buoni per le masse povere del Venezuela (dove il 60 per cento dei 24 milioni di abitanti vive ancora con meno di 2 dollari al giorno), ma facevano sorridere a Washington, a Roma, a Madrid (specie fin quando c’era il conservatore Aznar) e a Parigi. Non è più così. L’“allievo” di Fidel Castro, cha ha tutto l’interesse a coltivarselo, ora non è più visto come la caricatura del suo “maestro”. La battaglia di Chavez contro il neo-liberismo in generale e “l’imperialismo” dell’amministrazione nord-americana in particolare ne hanno fatto un leader di cui bisogna tenere conto a livello mondiale e un esempio in America Latina. Quello che ci si aspettava dal brasiliano Lula, lo ha fatto Chavez. Si potrebbe dire, estremizzando, che Chavez è il nuovo Lula. Lo si è visto al Forum Sociale di Porto Alegre del gennaio scorso, quando Chavez ha dovuto addirittura intervenire per impedire che una parte dell’uditorio fischiasse Lula. Probabilmente i nuovi leader di centro-sinistra dell’America Latina – Lula in testa, il cileno Lagos, l’argentino Kirchner – non amano molto il bollente caudillo di Caracas. Ma, al di là dei suoi discorsi, le sue iniziative devono essere guardate con molta attenzione: non solo la Petrosur, ma l’entrata e il rilancio del Mercosud, il progetto di estendere il Mercato Economico del Sud a tutta l’America Latina (l’Unasur, l’Unione delle Nazioni Sudamericane), la Telesur, l’alternativa alla Cnn che ha cominciato a trasmettere in luglio, insieme con Argentina, Cuba e Uruguay. Anche al vertice dell’Onu a New York, alla metà di settembre, Chavez, con le sue “tirate” contro gli Usa “Stato terrorista” e Bush “criminale di guerra”, ha fatto il pieno. Anche gli americani ormai lo prendono molto sul serio. E hanno cominciato una campagna aggressiva per isolarlo e tagliare la sua crescente influenza in America Latina. Lo accusano di ogni sorta di malefatte: di essere un “autocrate” e “un fattore negativo”, di essere una pedina nelle mani di Castro, di destabilizzare i paesi vicini, di appoggiare la guerriglia colombiana contro il presidente filo-americano Uribe, di sostenere la campagna dell’indio boliviano Evo Morales nell’inquieta Bolivia, di seminare zizzania in paesi in bilico come l’Ecuador e il Perù. La segretaria di stato Condi Rice in aprile è andata in Brasile a cercare l’appoggio di Lula per moderare Chavez, il segretario alla difesa Donald Rumsfeld è andato in Paraguay e in Perù in agosto per convincere i presidenti Duarte e Toledo che Chavez è un pericolo come e più di Castro. Gli Usa hanno mandato un paio di volte portaerei a Curaçao e Aruba, vicino alle coste del Venezuela. Chavez non fa nulla per calmare le acque, anzi sembra piacergli molto gettare petrolio per attizzare il fuoco. Ha sospeso tutti i tradizionali contatti e le manovre militari, i consolidati rapporti con la Cia e con la Dea, dalla sua torrenziale trasmissione domenicale “Alò Presidente” ha più volte accusato Bush di “doppio standard” per aver dato rifugio al terrorista cubano-venezuelano Luis Carlos Posada e di essere “un assassino” perché sta preparando – dice di avere le prove – “l’invasione” del Venezuela per ammazzarlo. D’altra parte, in agosto, il telepredicatore Pat Robertson, un esponente di quella destra cristiana che è uno dei due pilastri su cui s’appoggia Bush, non lo aveva detto chiaro e tondo: «Bisogna ammazzarlo»? Però l’altro pilastro di Bush è il petrolio. Un dilemma difficile. La partita è solo agli inizi.

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30.09.05

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