Spagna

Dopo quattro elezioni in quattro anni e una gestazione particolarmente difficile, dal 7 gennaio scorso la Spagna ha un governo (167 sì alle Cortes, 165 no, 18 astenuti). E non solo un governo ma un governo di “coalizione progressista”. Due parole che racchiudono una novità straordinaria per la Spagna e forse non solo per la Spagna.

“Coalizione” perché è la prima dal 1931, dai tempi della repubblica; e perché sancisce la fine del modello bipartitico imposto forzosamente dalla costituzione del 1978, quando Franco era morto da poco ma il post-franchismo no.
“Progressista” perché a formare il governo sono il Psoe, il tradizionale Partito Socialista di stampo socialdemocratico, e Podemos, la sinistra nuova, eterodossa, che nel 2015 fece irruzione alle Cortes rompendo per la prima volta il bipartitismo Partido Popular/Psoe.
Ora è il tempo di un governo di centro-sinistra/sinistra, con il leader del Psoe Pedro Sánchez come premier e il leader di Podemos Pablo Iglesias come vice-premier.


Un parto laborioso. Sánchez non voleva un’alleanza formale con Iglesias. Altrimenti avrebbe potuto farla dopo il voto dello scorso aprile senza andare a nuove elezioni in novembre. Alla fine ha dovuto rassegnarsi: Sánchez e Iglesias hanno firmato un “preaccordo” in 10 punti in novembre, sulla carta molto avanzato nel terreno economico, sociale, politico.
Anche Iglesias ha dovuto rassegnarsi. Ha ottenuto un ruolo di socio di minoranza: 4 ministri su 22 (Irene Montero  ministro per l’uguaglianza , Manuel Castells all’università, Alberto Garzón ai consumi, Yolanda Díaz al lavoro) e una vicepresidenza per sé, ai diritti sociali e all’Agenda 2030 dell’Onu. Una presenza politica di peso anche se non a caso diluita fra altre tre vice-premier tutte vicine a Sánchez (fra cui la responsabile degli affari economici Nadia Calviño) e fra numerosi ministri di area tecnocratica e/o ortodossa. Per evitare l’immagine  di un “governo bicefalo” e avvalorare quella  di un governo che guarda al centro abbandonato dal Partido Popular e da Ciudadanos.


Ma basta e avanza la presenza di Podemos al governo per fare andare fuori di testa l’establishment. La destra politica, anzi le tre destre – Pp, Ciudadanos e i fascio-franchisti di Vox – gridano quasi al colpo di Stato, negano la sua «legittimità democratica», invocano l’intervento dell’esercito, accusano Sánchez di aver svenduto il Paese agli indipendentisti catalani e ai “terroristi” dell’Eta basca con cui ha negoziato l’astensione alle Cortes. La conferenza episcopale esprime la sua «inquietudine» di fronte al «futuro incerto» del Paese e invita a «pregare per la Spagna»; la Ceoe, la confindustria spagnola, dice che le misure economico-sociali annunciate «mettono paura» e prevede sfracelli nei conti pubblici; i giornali sparano bordate contro il ritorno dei “rossi” e l’arrivo dei “chavisti”.


I primi banchi di prova saranno i negoziati concordati con gli indipendentisti catalani e la legge finanziaria che il nuovo governo  dovrà presentare presto alle Cortes. Intanto martedì 14, nel primo consiglio dei ministri, Sánchez ha annunciato un immediato aumento delle pensioni pari allo 0,9% anziché lo 0,25% previsto dalla legge. Un messaggio.
Il futuro è molto incerto. L’unica cosa certa è che il neonato governo di centro-sinistra/sinistra non godrà dei rituali primi 100 giorni di grazia. Ma offre qualche buona ragione per sperare.

Pubblicato il 

16.01.20
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