È quasi mezzogiorno. La stufa a carbone sibila e fuma nella capanna di bambu e fogli catramati, dove vive la signora Wu con la famiglia. Malgrado l'ora non sta preparando il pranzo. Sulla stufa in ferro bolle dello stagno liquido. Con una tenaglia vi immerge la scheda madre di un computer. Con l'altra mano separa processori e transistor. Dopo alcuni secondi la signora Wu getta il supporto della scheda madre su un mucchio. I suoi due figli sono seduti a terra, circondati da vecchi computer e da involucri di telefoni cellulari. Con dei coltelli arrugginiti tagliano dei fili elettrici.
Siamo a Guiyu, nel sud della Cina, provincia di Guangdong, cinque ore di macchina da Hong Kong. In tutto il villaggio si sente puzza di plastica bruciata. Le stradine sono disseminate di pezzetti di plastica fusa. Nei cortili interni delle case sono ammucchiati vecchi computer, televisori, fax e telefoni cellulari. La maggior parte dei 100 mila abitanti della regione si guadagna da vivere disossando apparecchi elettrici giunti di contrabbando dal mondo intero. Con dei coltellacci da cucina gli uomini staccano le parti ancora utilizzabili. Le donne immergono le schede madri in velenosi vapori. Bambini e ragazze separano i microprocessori. Guiyu è la discarica dell'era digitale.
A Guiyu lo si definisce "Shao Ban", in italiano "arrostire delle schede madri". È il lavoro più pericoloso, ma anche il meglio pagato: fino a 40 yuan al giorno, meno di 6 franchi. Per meritarsi questa somma si deve mettere alcune centinaia di schede madri a mollo nello stagno fino a farne fondere le saldature, per poi grattare via i transistor, i processori e i raccordi elettronici. Spesso si sviluppano vapori tossici, a volte le schede madri prendono fuoco. «Certo, alla salute non fa bene», dice Meng, un operaio di 35 anni della provincia di Anhui. Con altri tre uomini è seduto in un bugigattolo nel quale lo stagno caldo produce delle bolle che scoppiano a mezz'aria. Malgrado un piccolo ventilatore le vie respiratorie soffrono. «Ogni tanto quest'aria mi provoca delle eruzioni cutanee», dice Meng.
«È più facile che lavorare nei campi», dice Zhang, il marito della signora Wu. A torso nudo, seduto sul pavimento, svita il ventilatore in alluminio di un vecchio computer. La sua è una famiglia contadina, giunta due anni fa dalla provincia di Hunan. Dalla mattina alla sera, seduti nella loro capanna, Zhang e sua moglie smontano i resti della società occidentale. Di notte la famiglia dorme su delle stuoie stese fra i rottami. A Guiyu ci sono migliaia di atelier simili.
Ufficialmente la discarica informatica di Guiyu non esiste. L'importazione di rifiuti elettronici, pericolosi per l'ambiente, è proibita in Cina dal 2000. I giornalisti che vogliono visitare la regione ne sono dissuasi dalle autorità. Guiyu è un segreto, la faccia nascosta della globalizzazione. Siccome l'eliminazione dei rifiuti elettrici in Occidente costa cara e deve obbedire a rigorose norme a tutela dell'ambiente, milioni di computer, di telefoni e di altri apparecchi sono portati ogni anno in battello nei paesi del Terzo mondo, dove sono smantellati da operai senza alcuna protezione particolare e senza tener conto delle conseguenze ambientali.
Gran parte dei rifiuti di Guiyu proviene dagli Stati Uniti. "Proprietà della società Halifax" sta scritto per esempio sul retro di un vecchio fax. Ma ci sono anche dei telefoni Alcatel, francesi, e dei cellulari Bosch, tedeschi. Ogni giorno i camion blu della ditta "Vento d'Oriente" portano nuovi rifornimenti: gli operai se li caricano su dei motofurgoncini traballanti e se li portano a casa.
La popolazione di Guiyu vive di rottami elettrici da almeno 15 anni. Per quanto i metodi impiegati siano primitivi, una divisione del lavoro s'è progressivamente stabilita fra i villaggi e certi quartieri della città. In certe strade donne e uomini tolgono le schede madri dalle scatole. In altre strade smontano le stampanti. Su dei banchi di lavoro lungo la strada principale delle giovani donne separano e selezionano i microprocessori che verranno riutilizzati in giocattoli elettrici o in altri apparecchi. Molti pezzi vengono immersi in bagni di acido da operai che ne estraggono dell'oro e altri metalli preziosi.

Rifiuti da tutto il mondo

Un gruppo di donne è seduto al sole, sul cemento, davanti ad un edificio. Con dei martelli sbriciolano le scatole di vecchi cellulari. La vicina officina, dove si fonde la plastica, ha l'aria di una fabbrica dell'epoca della rivoluzione industriale in Europa. Il forno è un mostro di acciaio fumante su cui gli operai versano secchiellate d'acqua di raffreddamento. I volti e i torsi nudi degli operai sono neri di fuliggine. La macchina scoppietta prima di sputare un granulato nero che altrove sarà trasformato in nuovi involucri di plastica.
La maggior parte degli abitanti di Guiyu sono oggi dei lavoratori ambulanti, dopo esser stati dei contadini senza terra, degli operai senza formazione o dei giovani senza tetto. Degli "stranieri", secondo la formulazione cinese: persone che provengono da fuori villaggio. Yu, una ragazza di 23 anni della provincia di Gansu, smonta con un cacciavite un vecchio notebook Toshiba: non è mai andata oltre la scuola elementare e sa a malapena leggere. Non utilizzerà probabilmente mai un computer in vita sua e non navigherà mai in internet. Guadagna 25 yuan al giorno, meno di 4 franchi svizzeri. Come molti giovani di qui sogna di lavorare in una delle grandi fabbriche del sud della Cina. Ad ovest, a qualche ora di macchina, ci sono i grandi parchi industriali dove si produce il "Made in China" destinato all'esportazione. «Se ci trovo un lavoro migliore me ne vado», dice lei.
Sono ormai centinaia di milioni i computer che ogni anno sono mandati al macero. La Convenzione di Basilea, adottata a metà degli anni '90, proibisce la loro esportazione verso i Paesi in via di sviluppo. Soltanto gli Stati Uniti non l'hanno ratificata. Nella sola California si acquistano ogni anno 5 milioni di computer e 3 milioni di televisori. Secondo le stime della Silicon Valley Toxics Coalition, i cittadini degli Stati Uniti buttano via ogni anno oltre 100 milioni di computer, di cui il 90 per cento partono per l'estero, soprattutto in Cina, ma anche in India, Pakistan e nelle Filippine.
"Proteggere l'ambiente è un compito di tutti noi" sta scritto su un cartello posto lungo il fiume. Alcuni metri più in là, dei vecchi telefoni cellulari si degradano al bordo dell'acqua. Delle formiche si sono istallate in una montagna di rotoli di stampanti. Lungo la carreggiata delle pozze di prodotti chimici e di olio. Guiyu è un disastro ecologico. I resti inutilizzabili degli apparecchi sono bruciati o semplicemente rovesciati nei campi. I fiumi sono così inquinati che l'acqua potabile dev'essere portata in camion dalle regioni vicine. Nei villaggi c'è puzza di acido. Già nel 2002 un'inchiesta dell'organizzazione americana "Basel Action Network", dal nome della Convenzione di Basilea, aveva rivelato che la concentrazione di piombo nei fiumi è 200 volte superiore ai limiti fissati dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Nel suolo si riscontrano concentrazioni estreme di mercurio, di berillio, di cadmio e di altri veleni.
Il commercio internazionale dei rifiuti informatici è un settore in piena espansione. Benché la Cina abbia reso più severe le norme sull'importazione nel 2004, essa è comunque il principale importatore di rifiuti industriali. «C'è così tanto contrabbando che i controlli sono impossibili», dice Kevin May di Greenpeace a Hong Kong. Ogni tanto capita che alla dogana di Shanghai si scopra per esempio un carico di 50 tonnellate di telefonini, di schede madri e di batterie provenienti dall'Italia e destinate al Sud della Cina. Ma sono sequestri rari. «Spesso i computer e le schede madri sono mischiati a carichi di ferraglia o di plastica, in modo da passare inosservati», spiega Kevin May. Il governo centrale di Pechino a più riprese ha mandato degli ispettori a fare dei blitz a Guiyu. Ogni volta le decine di officine chiuse dall'autorità sono state riaperte di lì a poco.

Guiyu è un segreto

Guiyu deve rimanere un segreto. Un giornalista di Hong Kong che ha fatto un'inchiesta nella regione è stato picchiato dagli abitanti di un villaggio e scacciato. Il commercio dei rifiuti elettrici è un affare redditizio. A tirare le fila sono spesso degli imprenditori di Taiwan e Hong Kong. «I controlli alla dogana sono diventati più severi», osserva il capo di un'officina di Guiyu al quale ci siamo presentati come dei possibili partner commerciali. Sulla sua carta da visita c'è solo un nome e un numero di cellulare. «Accettiamo anche rottami dalla Svizzera, non è un problema» ci spiega, prima di chiederci quante tonnellate siamo in grado di fornire. Ha una rete che gli permette di far passare la frontiera di contrabbando al materiale proibito. «Possiamo andare a prendere la merce a Hong Kong». Il responsabile di un altro atelier di Guiyu ci dà le sue tariffe: «per un vecchio computer portatile paghiamo fra i 30 e i 90 yuan», cioè fra i 4 e i 13 franchi. Tutto compreso, anche il passaggio della frontiera.
A tarda sera la signora Wu e la sua famiglia hanno finalmente finito il lavoro della giornata. Il marito ha disposto bene ordinate in una pila davanti alla loro capanna le schede madri tolte dal bagno di stagno. I circuiti elettronici recuperati sono schiacciati in un sacco di plastica. Su un fuoco alimentato a carbone la signora Wu cuoce la pasta per la cena. In un angolo la televisione è accesa. I suoi due figli giocano fra le scatole di computer con gli altri bambini del villaggio. Alcuni ragazzi non hanno le scarpe. «La vita dei miei figli deve essere migliore», dice la signora Wu. Sogna che i suoi due ragazzi vadano un giorno all'università. Vuole che con i computer «ci lavorino come si deve».

Pubblicato il 

11.07.08

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