Le testimonianze di alcune ragazze attive in Ticino

Dopo aver dimorato in un’esistenza mai davvero sua, Baguscia ha concluso che la sua storia poteva terminare lì. La parola fine l’ha scritta prima di Natale, impiccandosi in un appartamento a Massagno, dove era ospite di una conterranea. È morta così, suicida due settimane prima di compiere 49 anni, il 3 dicembre 2012, alle 16.48 di un giorno che per molti profumava già di festa. Non per Baguscia. La speranza e la fede («Era profondamente cattolica, come ha potuto compiere un simile gesto?», si chiedono le amiche turbate) non sono bastate a trattenerla un’ora di più in questo mondo.

 

I regali di Natale per i parenti Baguscia li aveva tutti preparati: pacchetto dopo pacchetto cercavano rifugio nelle grandi valigie. Il biglietto dell’aereo per Varsavia era stato comprato dalla badante polacca che doveva partire il 23 dicembre. Un periodo di vacanza per trascorrere le feste con i propri cari, staccare dalle preoccupazioni e poi rientrare in Svizzera e cominciare un’altra volta cercando un nuovo impiego. L’ultimo periodo in Ticino, dove da qualche anno lavorava, era stato duro. Qualcosa non doveva aver funzionato nella relazione con la famiglia di Cadenazzo per la quale aveva prestato servizio: una realtà - ci confermano le autorità - a conoscenza della polizia, cui la donna si era rivolta senza però mai formulare accuse precise.

 

Baguscia viene descritta come una donna precisa, rigorosa nello svolgimento dei doveri ma discreta, pudica, introversa. Negli ultimi tempi aveva trovato il coraggio di aprirsi a qualche confidenza con le altre domestiche della comunità polacca. «Baguscia, come sei magra… Che cosa ti succede?» le chiedevano le amiche. E lei aveva incominciato a raccontare qualcosa: «Non mi trovo bene, non riesco neanche a mangiare». La decisione infine di rescindere il contratto di lavoro con la famiglia ticinese. Il clima doveva essere sufficientemente teso, se per andarsene Baguscia aveva chiamato una pattuglia della polizia: la donna voleva che gli agenti accertassero che lei da quella casa non portava via nulla. Aveva paura di essere accusata di furto o chissà che altro. Per favore, solo che le aprissero la porta perché non voleva più stare lì. Ad aspettattarla in Polonia c’erano il fratello, tre nipoti e l’anziana madre alla quale aveva promesso un riscaldamento perché non avesse più freddo. A Żyrardów, nel voivodato della Masovia, la donna non è più arrivata da viva: è giunta in una bara accompagnata da un passaporto mortuario.

 

Niente più regali e abbracci, niente pranzo di Natale, niente di niente: la sepoltura in un giorno di ordinario freddo polacco, mentre in Ticino l’inchiesta per la sua morte veniva chiusa. La tragica fine della donna non è però rimasta silenziosa, ha fatto “rumore” all’interno dell’invisibile comunità delle badanti polacche: la storia di Baguscia, per certi versi, è un po’ il racconto di ognuna di loro. «No, non si può arrivare a morire a causa di un lavoro che ti annulla come essere umano, che ti ruba la tua vita e ti lascia senza sogni. Non siamo macchine, non siamo schiave ma persone che lavorano con dedizione. Chiediamo migliori condizioni di trattamento e di accoglienza nelle famiglie, più rispetto, che ci venga riconosciuta la dignità di persone». Questa è la sintesi del messaggio che, un mercoledì di gennaio in un caffè di Bellinzona, ci consegna la decina di badanti polacche venute a incontrarci con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica ticinese: qui risiedono con un regolare permesso di lavoro e qui vogliono potersi integrare meglio.

 

Il contatto lo cercano con il “Movimento dei senza voce”, che fa da tramite tra noi e loro. L’appuntamento è alle 13. Ci sediamo al tavolo del bar e vi rimarremo per un paio d’ore. Sono un fiume in piena, è palpabile l’urgenza che hanno di sfogarsi, di parlare, di essere comprese. Durante l’intervista non verranno lanciate accuse gratuite, non saranno pronunciate parole eccessive. Sono donne composte, dignitose, con un grande controllo dell’emotività, descrivono con precisione le condizioni fisiche e psicologiche che comporta la loro professione. Storie che parlano in maniera cruda di mobbing, di sfruttamento, di minacce più o meno velate, di umiliazioni, di sofferenza, di fatica. «La mia giornata si inizia alle 6.30 e non finisce mai. Faccio la spesa, cucino, lavo, stiro, mi occupo della signora, la lavo, la porto a spasso, controllo che prenda le medicine, mi occupo anche del giardino. Faccio le governante e l’infermiera senza staccare mai. Notte compresa: sempre pronta a rispondere a ogni richiesta. Sono stanca, non ho uno spazio per me, io non esisto. È come vivere in prigione» apre la discussione una bella signora bionda sulla cinquantina. Il carico di una badante è infatti totalizzante: 24 ore al giorno per 5 cinque giorni e mezzo alla settimana. «Il contratto prevede otto ore di lavoro al giorno per un totale di 44 settimanali: è una bugia gigante, noi lavoriamo sempre, ininterrottamente.

 

Ci sono anziani che ti svegliano anche cinque volte per notte e tu devi correre per poi ricominciare tutto da capo alla mattina presto. Da sola perché i figli degli anziani che assistiamo sono spesso assenti: si fanno vedere una volta alla settimana e scaricano tutta la responsabilità sulle nostre spalle» aggiunge una badante. «Non tutte le famiglie sono così, ma in generale c’è poca collaborazione con i figli che spariscono». Gestire anziani affetti da malattie come l’Alzheimer o il Parkinson è un impegno estremamente gravoso, cui si aggiunge l’onere che richiede il mantenimento di un’economia domestica: «Per poter svolgere bene questo lavoro, devi essere una persona tranquilla, tollerante e avere pazienza. Non devi parlare troppo ma saper ascoltare molto, stare vicino all’anziano che soffre ed essere gentile con lui.

 

Chi ci dà lavoro non si rende conto della nostra fatica e pensano che sia una meraviglia. Non è così». Non è facile essere una badante perché vivi in una casa non tua («sono stata alloggiata in una soffitta che era un magazzino, dove non c’era quasi posto per il mio letto»), devi accettare lo stile di vita altrui («non si può mangiare quello che si desidera e in alcuni casi non ti viene permesso di sederti a tavola, ma devi portarti cibi freddi in camera tua»). Un isolamento all’interno della famiglia che si manifesta nella condivisione di attività: «Io non potevo guardare la televisione con loro. Ho risparmiato e ne ho comprata una perché era l’unico modo per mantenere un contatto con la realtà esterna e non impazzire». Alla convivenza forzata si aggiungono i problemi di solitudine e di integrazione che ogni emigrazione porta con sé, in special modo quella femminile, confrontata con la separazione dolorosa dai propri bambini. Che cosa chiedono queste donne? Faticano a dirlo apertamente perché non vogliono passare per chi sputa nel piatto dove mangia, ma si aspettavano “una Svizzera diversa, più umana. Siamo arrivate sole, senza punti di riferimento, con tanta fiducia nei confronti di questo paese e poi troviamo condizioni che mai ci saremmo aspettate.

 

Diamo tutto il cuore, ma siamo considerate esseri inferiori, un gradino sotto gli altri. In Italia ci siamo trovate meglio, qui siamo trattate come schiave: devi solo lavorare e tacere» evidenziano due badanti che hanno vissuto un’esperienza professionale oltre confine. La fatica, le ore di straordinario sono anche accettate, è la violenza psicologica che temono: «Ti trattano male perché sanno che tu hai bisogno dello stipendio; ti fanno mobbing, ti minacciano di farti perdere il permesso di lavoro. Del resto chi sei? Nessuno. Sei una badante senza alcun diritto». E c’è chi descrive uno stato di tensione tale da aver avuto in una famiglia «una paura tremenda; paura che mi ammazzassero. Pensavo di non resistere e se non mi sono uccisa come Baguscia è perché sono stata più forte di lei. Ma dico la verità, anche io ho pensato più di una volta al suicidio come unica soluzione per scappare da un inferno».

Pubblicato il 

24.01.13

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